La doppia vita di un cardiologo.
Morte improvvisa al cinema

Gabriele Bronzetti

Responsabile del Programma Dipartimentale Cardio-Pediatria, U.O. Cardiologia Pediatrica e dell’Età Evolutiva, Centro per le Cardiopatie Congenite dell’Adulto, Dipartimento Cardio-Toraco-Vascolare, Policlinico di Sant’Orsola, Bologna

Cinema and medicine repair biographies and wounds by raising plots, naming things, seeking a solution even to the most unthinkable enigma. Even before entering a movie theater, we should sign a consent form: are we ready to be paralyzed for two hours, without curare, to cure?

If we’re prepared to remain quadriplegic for hours in a theater, why shouldn’t we listen and watch the patient in front of us? After all, he brings us symptoms and signs, a script that leaves the movie’s direction up to us. No matter if it’s crude. When the dance of life turns tragic, the doctor must act with the apparent playfulness of an actor, without ever losing focus and a steady hand. Like literature, cinema is a medicine that helps us to enter into other’s lives, especially if they are suffering.

Key words. Narrative medicine; Sudden death.

“ …era sprofondato nell’oscurità.
E nell’istante stesso in cui lo seppe, smise di sapere”.

Martin Eden, Jack London.

Verrà un giorno in cui vedremo il montaggio di scene messe da parte. Capita in diverse professioni, compreso il mestiere di vivere. Quella che segue è l’avventura cinematografica di un cardiologo.

TITOLI DI TESTA

La carta millimetrata di un ECG scorre. Lembi di carta rosa si arrotolano sul pavimento di una stanza lussuosa. Nessuno soccorre l’uomo fuori campo. Non siamo in ospedale ma in un film di Luchino Visconti, Gruppo di famiglia in un interno (1974). La carta a quadrettini rosa scorre 25 millimetri al secondo: contemporaneamente la pellicola di celluloide gira a 24 fotogrammi per secondo. La linea si fa piatta. È la fine di un uomo, ma è solo l’inizio di un film.

Passiamo la vita a proiettarci una seconda vita, una vita parallela a 24 fotogrammi per secondo, una realtà aumentata con tanto di scene al rallentatore e colonna sonora. Senza saperlo ricorriamo al cinema come a una medicina per prepararci alla morte quando ci sembra lontana, o per fingerci in un sogno quando la signora bussa sempre più forte alla nostra porta.

Dicono che quando si muore tutta la vita ci scorre davanti come un film o meglio, come un trailer. Succede davvero, a patto che la morte non sia troppo improvvisa.

CINEMA E MEDICINA

Cinema e medicina sono affini non soltanto per il nome reversibile (medicina = di cinema, medi-cine). Secondo François Truffaut il cinema migliora la vita restituendola senza gli intervalli di noia1. La medicina dal suo canto prova a rimuovere dalla vita gli intervalli di malattia. Per Federico Fellini, un maestro anche nel non prendersi troppo sul serio, il cinema non deve essere edificante ma almeno “distrae dalla realtà scadente”. L’aggettivo “scadente” è bifronte: qualità scarsa e quantità finita. Ecco allora che il cinema/arte, come la medicina/scienza, intervengono nella realtà prolungandone gli splendori e mitigandone le miserie.

L’understatement dissacrante del Grande Riminese è condivisibile ma non si può negare che tutto ciò che nasce per essere estetico finisce col diventare etico, e viceversa. Di fronte a una cosa ben fatta proviamo istintivamente un senso di necessità e giustizia (aumentano i nostri battiti cardiaci), così come in una ricerca o in una cura efficace spesso avvertiamo eleganza. Le scienze naturali non richiedono meno stile dell’arte e tutto ciò che è etico e giusto finisce con l’essere bello e ordinato.

Il modo di somministrare parole e diagnosi, farmaci e interventi, sceneggiature e visioni, cambia le malattie. L’anatomia è fisiologia, la forma è sostanza. Ecco perché ogni medico dovrebbe avere una sensibilità artistica (e guanti sterili della misura giusta).

Cinema e medicina cavalcano il caos ricostruendo biografie e riparando anamnesi, edificando trame, dando un nome alle cose, cercando una soluzione anche al più insolubile enigma. Insomma, questi due hanno a che fare con la luce che trafigge il cosmo e il nosocomio. Ne deriva che anche prima di entrare in un cinema dovremmo firmare un consenso informato: siamo disposti a farci paralizzare per due ore, senza curaro, per curarci?

IL POLICLINICO COME POLITEAMA

La morte è una donna che scappa da un bagno con un asciugamano sul seno. Più diventiamo longevi e più la morte è un tabù. La sopportiamo solo sullo schermo.

Un medico in una vita vede meno morti (veri) di uno spettatore in una settimana (finti). Ma se i film sono pieni di medici e malati, quanti film entrano davvero nei medici e nei malati? Un film, come un libro o qualsiasi opera d’arte deve considerarsi un’esperienza terapeutica. Un film perdipiù è l’evoluzione, il distillato, il sublimato di un romanzo. Le competenze narrative – al pari delle linee guida – non sono innate: si apprendono, si coltivano, si arano con l’arte. Chi scrive ne è convinto al punto di auspicare l’insegnamento non facoltativo di Medicina Narrativa in tutte le facoltà di Medicina. Credo fino al midollo che per un aspirante medico capolavori come La montagna incantata e La morte di Ivan Ilic non siano meno formativi dei testi di Anatomia umana normale e Patologia generale2. Se è vero come è vero che siamo fatti di parole e sangue, le storie sono un flusso vitale, la forma liquida di infinite emazie lessicali. Da assumere talora a guisa di una doccia rinfrescante, talaltra di una trasfusione di globuli rossi concentrati. È proprio conoscendo e raccontando storie che Sherazade si salva la vita ne Le mille e una notte.

Nessun luogo o anima richiede più sensibilità, conoscenza e ordine di un ospedale e di chi, tra mura e lenzuola, soffre o lavora. Quando la malattia entra nelle nostre vite, quello che credevamo un ordinato giardino è una foresta che brucia. Il caos biologico e biografico della malattia deve essere riconosciuto e affrontato, proprio quando è irriconoscibile e spaventoso. Joan Didion ne L’anno del pensiero magico, memoir sull’elaborazione della morte improvvisa del marito dice: “La vita cambia in fretta. La vita cambia in un istante. Una sera ti metti a tavola e la vita che conoscevi è finita”.

Finito un film, ne inizia un altro.

LA DECIMA MUSA – FRATELLI E GEMELLI

Il cinema è arrivato dopo tutte le altre arti compendiandole vividamente. Per questo è chiamato la decima Musa, la più moderna e verosimile. Un’opera filmica può essere l’epitome multimediale di un romanzo, con un linguaggio ovviamente diverso e una presa emotiva e cognitiva ineguagliabilmente rapida. La tachicardia e l’orripilazione che può dare un thriller, la commozione di una storia sentimentale non sono riproducibili dalla stessa opera su carta.

Quando i fratelli Auguste e Louis Lumière proiettarono a Parigi il cortometraggio L’arrivo di un treno alla stazione di La Ciotat molti spettatori scapparono per non essere investiti dal treno. Correva il 1895, considerato l’anno di nascita del cinematografo. Sempre nel 1895 Sigmund Freud (1856-1939) metteva su carta la sua prima interpretazione di un sogno fatto a Vienna la notte del 23 luglio, assunto poi come giorno natale della psicanalisi.

Cinema e psicanalisi sono dunque gemelli eterozigoti e di fatto non esiste un’arte più psicanalitica del cinema. La fabbrica dei sogni – così viene chiamato il cinema – ha un linguaggio che si presta perfettamente alla rappresentazione dell’inconscio.

È curioso che all’alba del Novecento – il cosiddetto secolo breve capace con due guerre di far cadere 150 milioni di uomini e diversi imperi – nascano tre rivoluzioni luminose.

Mentre i due fratelli con quel nome lì (nomen-omen) davano alla luce il cinema nel buio di una sala della Ville Lumière e il padre della psicanalisi dissotterrava l’inconscio dalle parti del Prater, in Olanda il loro coetaneo Willem Einthoven (1860-1927) era incinta di una scalpitante femminuccia chiamata Elettrocardiografia, che sarebbe poi venuta al mondo ufficialmente nel 1903 per diventare una star cardiologica (Figura 1).




Einthoven in qualche modo si era arrampicato su scienziati come Galvani, Righi, Matteucci, Waller e tanti altri; siamo tutti nani (o comunque normotipi) sulle spalle di giganti3.

L’elettrocardiografia a sua volta è la più psicanalitica delle indagini cardiologiche, capace com’è di mettere in luce l’inconscio elettrofisiologico, un linguaggio ionico (oserei dire ionirico) che va interpretato appunto, come i sogni. L’ECG sta agli ioni come i sogni stanno all’Io. I più cervellotici esegeti dell’elettrocardiografia condividono con gli psichiatri un lessico non di rado esilarante: patologie segrete e aritmie ineffabili si tradiscono spesso con lapsus elettrici e b-atti-ti mancati, vale a dire extrasistoli, blocchi, dissociazioni, retro-conduzioni, pre-eccitazioni, aberrazioni, tratti borderline, ecc. In poche parole le nevrosi di tutti, o le psicosi dei meno fortunati. È un segno dei tempi che gli psichiatri sempre meno occupati a misurare il QI siano sempre più preoccupati del QT. Il cervello sballi pure, purché il cuore non balli sulle punte di una torsione.

Interpretare i sogni (e i segni ECG) è decisamente un lavoro da attori, psichiatri e... cardiologi.

LA GRANDE NEMICA

Philip Roth, il grande scrittore morto di scompenso cardiaco a 85 anni lasciandoci Pastorale americana e La lezione di anatomia, tra un arresto cardiaco e l’altro ha confessato, in articulo mortis Sono stato a trovare la grande nemica, le ho girato attorno e ho parlato con lei, e non dobbiamo temerla”.

Se per qualche pensatore la vita dovrebbe essere una lenta e atarassica preparazione all’unica certezza – la vita è una malattia sessualmente trasmissibile a prognosi infausta – che peraltro ci condanna ad essere gli unici animali morenti (è immortale solo chi non sa di dover morire), per la maggior parte di noi la vita è un ballo spesso comico e a volte tragico attorno alla grande nemica. Di sicuro la morte non è una esperienza. Per questo ne siamo così dannatamente curiosi da volerla sperimentare sugli altri ma non abbastanza sadici al punto di uccidere. Ci piacciono i film, quei film dove l’aspettiamo, la aneliamo. Cinema e medicina si occupano di quella cosa lì e ci portano sulla scena del delitto: tra luci ed ombre negoziano con la morte. Ditemi, chi conosce un ospedale o un bel film dove non si muore? Perfino in una commedia per eccellenza come Amici miei la morte entra in modo grottesco e nondimeno credibile: il compagno di zingarate Giorgio Perozzi, cinquantenne cardiopatico interpretato da Philippe Noiret, sta morendo di infarto nel suo letto. Il prete accorso con l’olio santo (l’angioplastica coronarica non si faceva ancora), gli amici, noi spettatori, tutti sono in ansia e pendono dalle sue labbra. E lui cosa dice? Una supercazzola. Un nonsense soavemente scurrile. In fondo, è con l’insensatezza che Philippe Noiret obbedisce all’estremo consiglio di Philip Roth “Non dobbiamo temerla”.

Il sospetto che i film ci mostrino la morte per educarci a non temerla si fa sempre più incalzante.

LA MATERIA DEI SOGNI

Come dimostrano le neuroscienze, la cinematografica rappresentazione della realtà cambia la nostra postura mentale e fisica. Dopo aver osservato ripetutamente un rovescio di Roger Federer o la camminata di Richard Gere potremmo giocare a tennis e deambulare diversamente, voglio dire meglio (esistono ancora i neuroni specchio anche se non se ne parla più). Vedere qualcuno che mangia in un film suscita un appetito struggente che oltre a spiegare il prezzo dei popcorn ci domanda: e se fosse così anche per la vita oltre lo stomaco, per il resto dell’infinito balenare del vivere?

Dopo un bel film andiamo a casa con più voglia di vivere e, osiamo dire, di far vivere. Capiamo la morte, capiamo la vita, gli altri. Attenzione però al rischio moralistico delle migliori intenzioni: l’Arte non è mai consolatoria o edificante ma sempre problematica. Uno spettatore dovrebbe uscire dalla sala di proiezione con più domande che risposte, come un chirurgo che lascia la sala operatoria. Anche quando è andato tutto bene.

Se siamo disposti a rimanere tetraplegici per ore in una sala, perché non dovremmo ascoltare il paziente che abbiamo davanti? In fondo ci porta sintomi e referti, una sceneggiatura che pur grezza o perfino brutta, lascia a noi la regia del film4. Quanti registi hanno fatto film bellissimi da plot scadenti o hanno improvvisato sul set? Fellini improvvisava spesso, tra lo sconcerto della troupe. Un medico deve essere pronto all’improvvisazione perché non c’è mai una seconda volta per la prima volta. Nel film di Paolo Sorrentino È stata la mano di Dio il giovane Fabio, orfano improvviso di entrambi i genitori, chiede all’affermato cineasta Capuano come diventare regista e lui a sua volta gli domanda “Lo tieni un dolore?”

Se non hai un dolore non hai niente da dire. I medici sono artisti fortunati perché anche quando non hanno un dolore personale ci pensano i malati a prestarglielo. Proprio quando il ballo della vita si fa dramma è lì che il medico deve dissimulare con l’apparente giocosità (in francese recitare si dice jouer, in inglese to play) dell’attore, senza perdere mai il focus e la mano ferma. Infatti, alla fine il vibrante avvertimento che Capuano manda al giovane sognatore sarà” Non ti disunire Fabio, non ti disunire”.

Se davvero come diceva il grande clinico canadese Osler la maggior parte delle tragedie sono arteriose, allora la vita è un ballo in mascherina.

È per questo che un cardiologo dovrebbe occuparsi della propria cineteca domestica non meno che della cinetica miocardica dei suoi pazienti.

NUOVO CINEMA MEDICINA

Spesso ci saremo domandati ma quanto è vero un film, e quanta finzione c’è nella vita? È una magnifica commistione o un maledetto imbroglio?

Nel film di Giuseppe Tornatore Nuovo cinema paradiso (1988) il protagonista Salvatore La Vita (non vi fischiano le orecchie dottori, salvatori della vita?) è un rinomato regista che torna nel natio paese siciliano per il funerale dell’amico e mentore Alfredo, il proiezionista che lo aveva iniziato al cinema. Prima di accomiatarsi riceve dalle mani della vedova una bobina senza titolo. Tornato a Roma, quando si decide a proiettare il film, il regista scoprirà che si tratta del montaggio di scene di baci che il parroco del vecchio Cinema Paradiso, Don Adelfio, aveva fatto censurare. Quei baci avrebbero turbato i giovani cuori, scandalizzato i benpensanti. Quel bocca a bocca era una resuscitation (così si dice rianimazione in inglese) pericolosa per le anime del Cinema Paradiso. Non era certo la Resurrezione del canone cattolico.

Di fronte a quei baci rubati e poi rinvenuti il Salvatore coi capelli bianchi ritrova il tempo e si riconcilia con il passato. Un passato ineludibile che ritorna carsicamente per volontà imperscrutabili. Il montaggio dei baci infatti era nell’unica pizza sopravvissuta all’incendio del cinema, quando Salvatore aveva salvato la vita, ma non la vista, ad Alfredo.

Se l’essenza della cura è mettersi nei panni degli altri, allora proviamo a metterci nei panni di un Salvatore del nostro tempo. Fingiamo di essere un medico che torna nella città universitaria per il funerale dell’amato mentore. Prima di salutare tutti riceviamo dai cari del defunto una chiavetta Usb.

“È un semplice video che il Professore ha lasciato per lei” ci dicono. Pensiamo sia la registrazione di un congresso in cui eravamo insieme, o la festa per il giubileo dell’Istituto. In ogni caso, temendo l’agguato dei ricordi aspettiamo anni prima di aprire il file.

Quando un bel giorno troviamo il coraggio, soli in una stanza buia, ecco cosa vedremo guardando in faccia il tempo.

LA BOBINA DEL PROFESSORE:
LA VITA IN DISSOLVENZA

Amarcord (1973)

Nel film che Fellini dedica alla natale Rimini, tra i tanti personaggi memorabili svetta il nonno.

Il vecchio si perde nella nebbia “Ma dov’è che sono? Mi sembra di non stare in nessun posto. Mo se la morte è così... non è mica un bel lavoro...”. Le ultime scurrili parole sono accompagnate dal gesto dell’ombrello in terra di Romagna, storicamente ribelle a ordini che piovono dall’alto. La nebbia è la prefigurazione della morte che calerà all’improvviso. Fellini, molto affezionato alla sequenza del nonno disse in un’intervista: “Vorrei augurare a tutti noi di uscire di casa e di fare dei passi ma non nella nebbia e soprattutto di tornare indietro per morire avendo percepito qualcosa e non soltanto una parete così immobile, ferma, senza profondità e senza trasparenza”.

L’arte è quel pastrocchio che dona trasparenza e profondità al mondo, l’elettricità che mette le cellule nervose e cardiache in condizione di percepire, eccitandosi. E nell’ultimo istante forse anche di non prenderla troppo sul serio, la signora. Nella Recherche di Fellini il tempo perduto non risorge in una Madeleine inzuppata nel tè ma in una piada innaffiata di Sangiovese.

Tornare fisicamente nei luoghi della felicità delude sempre. È per questo che Fellini ha girato Amarcord a Cinecittà e non a Rimini, per ricostruire il “suo” passato come del resto facciamo tutti più o meno inconsciamente, spesso al cinema. Fellini non è voluto tornare nel posto delle fragole contrariamente al professor Isak Borg...

Il posto delle fragole (1957)

...che invece ritorna nel luogo della felicità durante un viaggio attraverso la Svezia. Nel film di Ingmar Bergman – il regista svedese che venne dal freddo e da Freud – un anziano professore in medicina deve andare a Lund per ricevere una prestigiosa onorificenza. La notte prima della partenza fa un sogno distopico: si trova in una zona sperduta della città, con rovine e orologi senza lancette, dove si sente solo il rimbombo dei battiti del suo cuore. Lo abborda un uomo intabarrato e dalla maschera grottesca che gli si affloscia davanti. Poi giunge una carrozza senza cocchiere da cui cade una bara che si scoperchia. Ne esce una mano che tenta di ghermirlo e quando il corpo intero è visibile lui vi riconosce sé stesso. È la morte improvvisa: il professore svedese non è che la versione espressionistica del nonnino riminese. Ancora scosso dall’incubo il giorno seguente Isak Borg parte verso Lund accompagnato dalla nuora Marianne (moglie del figlio a sua volta medico). Dalla voce fuori campo e nei dialoghi con la giovane donna che come si scoprirà è incinta, emerge l’aridità sentimentale dell’accademico. Il prestigioso professore non è che un vecchio misantropo, un egoista terminale. Nel tragitto visiterà i luoghi della giovinezza e del primo amore innocente, delle fragole appunto. Quello che sembra un amaro viaggio nel passato crivellato dai rimpianti, dal fallimento e dai tradimenti inferti e subiti trova via via pacificazione con la resipiscenza del vecchio che scopre di essere attorniato da una natura benevola e una gioventù migliore di lui. Nel finale Isak Borg si addormenta serenamente e nella sequenza onirica ci resta il dubbio che questa volta muoia per davvero. Morire il giorno del premio in Svezia...

The Wife (2017)

...è una cosa che succede anche a uno scrittore americano nel film di Björn Runge. Joe Castleman è uno scrittore americano ultrasettantenne che vola a Stoccolma con la moglie Joan per ricevere il premio Nobel per la letteratura. Tra il presente nella capitale svedese e flashback intermittenti scopriamo che in realtà a scrivere gli acclamati romanzi era la moglie Joan, mentre Joe si limitava a darle spunti. Durante la cerimonia di premiazione Joe ringrazia la moglie con la trita retorica della grande donna dietro al grande uomo. La ghost-writer gli tiene la parte ma tornando in albergo rivela al marito l’intenzione di lasciarlo. Il minimo, pensiamo noi, dopo una vita di bugie e tradimenti. Joe comincia a sentirsi male e in albergo ha un classico infarto (Figura 2).




La crisi coronarica è resa con grande realismo, compreso l’intervento dell’equipe medica che pratica la rianimazione fino a un estremo tentativo di defibrillazione. Lo scrittore muore. Non è certo il risarcimento auspicato da Joan, che tuttavia lo consola nell’acme del muliebre immolarsi. Dalla finestra dell’albergo si vede la neve che cade sulla città, citazione de I morti, novella che chiude Gente di Dublino di James Joyce. Anche nel libro la resa dei conti avviene in una camera d’albergo mentre fuori nevica. Il professore universitario e scrittore Gabriel, dopo la confessione della moglie Gretta su un suo amore giovanile – un ragazzo è stato capace di morire per lei – rivive il trailer della propria vita fallimentare. Capisce di dover morire di vecchiaia e senza passioni. Sarebbe stato meglio morire improvvisamente di un amore bruciante piuttosto che di scompenso cronico con un tasso di ipocrisia superiore a quello di creatinina. E così la neve ricoprirà tutto, i prati, le case e i morti, ormai indistinguibili dai vivi. Alla fine Gabriel si addormenterà come il professor Borg ma con ben altro spirito, “e la sua anima gli svanì adagio adagio nel sonno mentre udiva lieve cadere la neve sull’universo, e cadere lieve come la discesa della loro estrema fine sui vivi e sui morti”.

The Wife non è il primo film in cui in una stanza d’albergo di Stoccolma un uomo riceve una scarica elettrica...

Intrigo a Stoccolma (1963)

...perché nel film di Mark Robson (titolo originale The Prize) succede qualcosa di simile sebbene con sviluppi diversi. Anche qui siamo nei giorni del prestigioso premio. Il Nobel per la letteratura Andrew Creig interpretato da Paul Newman è uno scrittore americano shakerato tra bottiglia e sottane che finisce in un cocktail a base di Cia, Kgb e bionde. A un certo punto lo troviamo in una stanza d’albergo a soccorrere il Nobel per la fisica Stratman in preda a una fibrillazione ventricolare, insieme a un altro accademico, una donna e il Nobel per la medicina Carlo Farelli (nomen-omen). Quando sembra che non ci sia più niente da fare lo spaccone Newman chiede a Farelli di fare qualcosa. E l’italiano dal nome pragmatico dirà “Bisogna improvvisare”. Detto fatto. Il buon Farelli (Sergio Fantoni) prende un abat-jour, stacca il filo elettrico e lasciandolo collegato alla rete appoggia i due poli al petto del fisico agonizzante, resuscitandolo al secondo tentativo. Con grossolanità stereotipica il film vorrebbe ironizzare sull’italica arte di arrangiarsi che almeno in questo caso assurge a virtù non lontana dal genio. Quando non c’è copione non resta che improvvisare.

Passando da Andrew Creig a Daniel Craig, dalla Venezia del nord alla Venezia nostrana troviamo una spia...

Casino Royale (2006)

...non intossicata soltanto di donne e Martini. Nell’episodio del 2006 della serie James Bond, Casino Royale, l’agente 007 interpretato da Craig è seduto al tavolo verde della Laguna. Ordina il solito Martini Vesper che però gli viene preparato con un ingrediente di troppo: la digitale. È noto che la digitale ha effetti tossici visivi, e infatti Bond comincia a non vederci bene. Quando il veleno (ogni farmaco può essere un veleno) entra nelle cellule cardiache causa una tachicardia ventricolare polimorfa. Barcollando Bond raggiunge la sua Aston Martin sprovvista di cric nel bagagliaio ma con un Dae (defibrillatore automatico esterno) nel cruscotto.

Bond con uno sforzo sovrumano apre il defibrillatore e si applica al petto le piastre che lo dovranno defibrillare. La scarica non parte. L’arresto cardiaco è inevitabile. L’agente 007 è praticamente morto. Ma ecco che arriva Vesper, la sua ragazza: si accorge che il defibrillatore ha un filo staccato, lo riconnette e questa volta la scarica funziona riportando il cuore al giusto ritmo. È la dose che fa il veleno: 100 milligrammi di digitale uccidono mentre 100 joule di elettricità salvano; 100 microgrammi di digitale curano dove 1000 joule di elettricità ucciderebbero. Una donna un rimedio lo trova sempre, e in ogni caso un Dae è più utile di un cric: meglio le gomme a terra che il cuore sottoterra.

La vita è strana, a volte giocare nell’orto con il nipote può essere più pericoloso di una sparatoria...

Il Padrino – parte II (1974)

...come sperimenterà Vito Corleone. Il Padrino, l’immenso Marlon Brando sta insegnando al nipote Anthony (così battezzato per tramandare il nome di suo padre Antonio nelle generazioni americane) a dare il flit ai pomodori. È curioso che la pompa insetticida in mano al bambino assomigli a un mitra e richieda la stessa imbracciatura (non a caso nei posti di lupara si muore come mosche, e non solo d’estate come vorrebbe un altro film). Ad un certo punto Vito Corleone si accascia su una sedia. Non è una dose eccessiva di DDT a nuocergli. È una crisi cardiaca, un Danno Del Tempo: le ossessioni dell’onore, la malavita, il rancore covato, gli agguati temuti, le ansie per la successione della sua dinastia a pallettoni erodono le coronarie. Inoltre don Vito è diabetico (nel Padrino Parte III Michael manifesterà una chiara polidipsia diabetica ereditata dal padre). Il Padrino si rialza, barcolla pateticamente davanti al nipote che pensa si tratti di un gioco. Farà in tempo a rendersi conto della sua dipartita beffarda, cadrà e quando accorrerà l’erede predestinato, Michael, gli dirà con l’ultimo respiro “La vita è così bella”. Morire d’infarto in Sicilia, nel bel mezzo di una questione d’onore, e con un discendente che si chiama Antonio...

Il Bell’Antonio (1960)

...è il destino di Alfio Magnano. Il sanguigno capofamiglia vede minacciato il lignaggio da una diceria infamante che riguarda suo figlio Antonio. Ci troviamo a Catania tra le due Guerre. Il bellissimo e corteggiatissimo Antonio è stato non solo lasciato, ma immediatamente soppiantato dalla moglie Barbara esasperata da un matrimonio non consumato. Si sa che i paesani son tutti dottori: impotenza. Nonostante i sintomi di angina pectoris incipiente Don Alfio, nell’estrema difesa dell’onore familiare, si reca in un bordello. La prostituta designata avverte il pericolo dell’uomo in preda a un raptus di gallismo, ma non può che assistere impotente ai rantoli di un infarto fulminante. A questo punto il bell’Antonio, davanti alla lapide del padre imbrattata da scritte che infieriscono sul suo onore non può far altro che sposare Santuzza, la serva di casa che manifestando il suo stato interessante lascia credere alla padrona neo-vedova ciò che il neo-orfano non nega. E così, con la fecondazione “assistita” da Edoardo, cugino di Antonio e antico pretendente di Santuzza (si accontenterà di essere il “padrino” battesimale del nascituro) si riabilita l’onore dei Magnano.

Il passo dalle coronarie alle corna (e viceversa) è breve. Rimanendo in Sicilia, scendendo verso il ragusano in poco più di cento chilometri entriamo...

Divorzio all’italiana (1961)

...nel film di Pietro Germi che rappresenta il prototipo della commedia all’italiana. Siamo ad Agramonte (nome immaginario come Il Giardino dei Finzi Contini) dove l’accidioso barone Ferdinando Cefalù/Marcello Mastroianni fantastica su come fare fuori l’asfissiante moglie Rosalia. Nell’infinito afoso meriggiare tra la sdilinquente bellezza isolana, a Fefè – come lo chiama insistentemente l’ormai insopportabile donna –, non resta che invaghirsi della cugina, la sedicenne Angela/Stefania Sandrelli. Siamo negli anni ’60, in un paese dove vige la legge sul delitto d’onore ma non è ammesso il divorzio (due anacronismi che si compensano con le corna, anacornismi), in un paesino dove è appena arrivata La dolce vita di Fellini ma non arrivano le ambulanze. Un giorno, per uno scambio di indirizzo Calogero, il padre di Angela, intercetta una lettera della figliola diretta a Ferdinando Cefalù. Il corpulento e iracondo genitore non va oltre le prime righe poiché basteranno poche parole per occludergli definitivamente le coronarie. Fefè giunge sul luogo del delitto in tempo per occultare la lettera caduta dalle mani dello zio, una vera pistola fumante, tra le grida ebefreniche delle donne di casa. Ci penseranno poi pistole non metaforiche a sbrigare la faccenda, con Rosalia e l’accaldato fedifrago (l’amante tanto atteso da Fefè) freddati dai rispettivi coniugi. E così il Barone Ferdinando, con la mite pena di chi ha difeso il proprio onore addirittura benedetta da un’amnistia, esce di galera prima di un rubagalline, pronto a sposare Angela. In viaggio di nozze, in barca nell’azzurro mare di agosto, la coppia ritrovata si scambia baci salati, mentre Angela fa piedino al giovane skipper. Il film finisce qui. Considerato che il delitto d’onore è stato cancellato dal codice penale nel 1981, Fefè avrebbe avuto quasi 20 anni a disposizione per compiere un secondo, scontatissimo uxoricidio. Ci sono matrimoni dove non è una legge né una rivoltella a separare corpi e anime, ma l’ala gelida del tempo...

Il dottor Zivago (1965)

...come succede nel film tratto dall’unico romanzo di Boris Pasternak, Il dottor Zivago, che valse al poeta russo il Nobel per la letteratura del 1958. Jurij Andreevič Živago è un uomo interamente diviso: tra la moglie Medicina e l’amante Poesia, tra la moglie Tonja e l’amante Lara. Il primo amore che non passa mai. In una Russia che si spacca nella rivoluzione d’ottobre, il vento vetroso della storia turbina fin dentro le coronarie di Zivago (che in russo vuol dire vita), depositandovi cristalli non di neve, ma di colesterolo: lo smembramento della famiglia, l’esilio di moglie e figlio, la persecuzione per le sue poesie, la privazione di cibo e di sonno e poi, Lara. Lara trovata, perduta, ritrovata come un’aritmia che va e viene fino all’ultima fibrillazione. Fino a quel tram di Mosca che si chiama infarto, quando Jurij vede Lara dal finestrino ma non può scendere prima che le sue coronarie si stringano come lui vorrebbe stringere lei. Il regista David Lean ha studiato bene la cardiologia: Zivago si porta la mano destra al petto e alla gola, la sua fronte è una Siberia madida, il braccio sinistro si fa di piombo (Figura 3).




Quando Jurij scende finalmente dal tram, Lara ormai irraggiungibile, Zivago si accascia sulla piazza dove nessuno potrà salvarlo. Così muore un uomo, un medico, un poeta.

TITOLI DI CODA

Ora intuiamo perché il Professore di cardiologia aveva tagliato quelle scene dai film. Temeva la nostra ipersensibilità. Vedeva in noi dei poeti e dei medici come Jurij Zivago. Non ancora pronti a imbatterci nel trivio dell’ultimo respiro.

Se i baci sono pericolosi perché a guardarli viene voglia di baciare, e si impara anche, cosa c’è di così pericoloso nella morte improvvisa per un cardiologo? Forse il Professore ce l’ha nascosta per il gioco perverso della censura, il desiderio che monta su ciò che ci sottraggono. I maestri veri toccano il teorico come un corpo erotico e conoscono l’arte del nascondimento. Dovevamo desiderare la doppia vita. La nostra e quella degli altri messe insieme pericolosamente. Il medico e il poeta, insieme pericolosamente.

Più di tutto il Professore temeva che capissimo troppo presto che si muore di passione. Che i medici e i poeti, e i buoni medici sono anche poeti, muoiono prematuramente per questo.

Arrivati fin qui noi dottori, un tempo considerati salvatori della vita o, nella peggior sorte, custodi di quel segreto ultimo, possiamo riconciliarci come il protagonista di Nuovo Cinema Paradiso, Salvatore La Vita.

Riconciliarsi vuol dire chiedere a tutti perdono e perdonare tutti. Proprio quando si litiga fino al divorzio con la professione, le scene montate di un vecchio Professore ci riportano il tempo perduto. Se mai avessimo rimosso, se mai ci fossimo girati dall’altra parte ora questo film di dissolvenze è uno specchio per l’antico sguardo di fuoco della giovinezza.

Questo cinema ci conduce in scena, in quel ballo, ci porta per mano all’incontro con la grande nemica, per non temerla. Si sente una musica, è la colonna sonora: non possiamo avere paura.

Medici e poeti come Jurij Zivago, incerti tra una sala di proiezione e di rianimazione, guardando il pulviscolo scintillante nel cono di luce sopra di noi, sapremo finalmente che siamo fatti della stessa materia dei sogni.

Dietro lo sterno e tra i polmoni come in un cinema, c’è una luce che ha bisogno del buio per trovare senso.

Fine

Dedicato a un siciliano, Giuseppe Oreto,
Professore di Cardiologia, medico e poeta.

Ci ha condotto nel mondo dei segni elettrocardiografici
e dei sogni, mai lasciando indietro una sola onda.

RIASSUNTO

Cinema e medicina riparano biografie e anamnesi edificando trame, dando un nome alle cose, cercando una soluzione anche al più insolubile enigma, con un minimo rischio iatrogeno. Ne deriva che anche prima di entrare in un cinema dovremmo firmare un consenso informato: siamo disposti a farci paralizzare per due ore, senza curaro, per curarci? Se siamo pronti a rimanere temporaneamente tetraplegici in una sala, perché non dovremmo ascoltare e guardare il paziente che abbiamo davanti? In fondo ci porta sintomi e referti, una sceneggiatura che pur grezza o perfino brutta, lascia a noi la regia del film. Proprio quando il ballo della vita si fa dramma è lì che il medico deve dissimulare con l’apparente giocosità dell’attore, senza perdere mai la voce e la mano ferma. È per questo che un cardiologo dovrebbe occuparsi della propria cineteca non meno che della cinetica miocardica dei suoi pazienti.

Parole chiave. Medicina narrativa; Morte improvvisa.

BIBLIOGRAFIA

1. Truffaut F. Il cinema secondo Hitchcock. Milano: Il Saggiatore; 2014.

2. Bronzetti G. Nel cuore degli altri. Sansepolcro (AR): Edizioni Aboca; 2024.

3. Snelle HA. Willem Einthoven (1860-1927). Father of electrocardiography. Life and work, ancestors and contemporaries. Dordrecht: Kluwer Academic Publishers; 1995.

4. Cattorini P. Bioetica e cinema. Milano: Franco Angeli Editore; 2012.