Position paper della Società Italiana di Cardiologia (SIC): Priorità del vaccino COVID-19 nei pazienti
con patologie cardiovascolari

Ciro Indolfi1,2,3, Francesco Barillà1,4, Cristina Basso1,5, Marco Matteo Ciccone1,6, Antonio Curcio1,2, Massimo Mancone1,7, Giuseppe Mercuro1,8, Saverio Muscoli1,9, Savina Nodari1,10, Roberto Pedrinelli1,11, Francesco Romeo1,12, Gianfranco Sinagra1,13, Pasquale Perrone Filardi1,3,14

1Società Italiana di Cardiologia, Roma

2Istituto di Cardiologia, Università degli Studi “Magna Graecia”, Catanzaro

3Mediterranea Cardiocentro, Napoli

4Dipartimento di Medicina dei Sistemi, Università degli Studi “Tor Vergata”, Roma

5Unità di Patologia Cardiovascolare, Università degli Studi, Padova

6Divisione di Cardiologia, Università degli Studi, Bari

7Dipartimento di Scienze Cliniche, Internistiche, Anestesiologiche e Cardiovascolari, Sapienza Università di Roma, Roma

8Dipartimento di Scienze Mediche e Sanità Pubblica, Università degli Studi, Cagliari

9U.O.C. Cardiologia, Fondazione Policlinico Tor Vergata, Roma

10Dipartimento di Cardiologia, Università degli Studi, ASST Spedali Civili, Brescia

11Dipartimento di Patologia Chirurgica, Medica, Molecolare e dell’Area Critica, Università degli Studi, Pisa

12UniCamillus, International Medical University, Roma

13Dipartimento Cardiotoracovascolare, Università degli Studi, Trieste

14Dipartimento di Scienze Biomediche Avanzate, Università degli Studi di Napoli “Federico II”, Napoli

In over a year, the COVID-19 pandemic caused 2.69 million deaths and 122 million infections. Social isolation and distancing measures have been the only prevention available for months. Scientific research has done a great deal of work, developing in a few months safe and effective vaccines against COVID-19. In the European Union, nowadays, four vaccines have been authorized for use: Pfizer-BioNTech, Moderna, ChAdOx1 (AstraZeneca/Oxford), Janssen (Johnson & Johnson), and three others are currently under rolling review.

Vaccine allocation policy is crucial to optimize the advantage of treatment preferring people with the highest risk of contagion. These days the priority in the vaccination program is of particular importance since it has become clear that the number of vaccines is not sufficient for the entire Italian population in the short term. Cardiovascular diseases are frequently associated with severe COVID-19 infections, leading to the worst prognosis. The elderly population suffering from cardiovascular diseases is, therefore, to be considered a particularly vulnerable population. However, age cannot be considered the only discriminating factor because in the young-adult population suffering from severe forms of heart disease, the prognosis, if affected by COVID-19, is particularly ominous and these patients should have priority access to the vaccination program.

The aim of this position paper is to establish a consensus on a priority in the vaccination of COVID-19 among subjects suffering from different cardiovascular diseases.

Key words. Cardiovascular diseases; COVID-19; SARS-CoV-2; Vaccine.

INTRODUZIONE

Nel dicembre 2019 la sindrome respiratoria acuta grave da coronavirus 2 (SARS-CoV-2) comparve per la prima volta a Wuhan (China). In un primo momento questa malattia sembrava fosse un fenomeno isolato e circoscritto, ma in poche settimane ha assunto un carattere pandemico creando una vera e propria emergenza sanitaria in tutto il pianeta. Le autorità sono dovute intervenire in tutto il mondo per arginare la diffusione della malattia, che si caratterizzava per una grave compromissione della funzionalità respiratoria e per l’elevata mortalità. Il SARS-CoV-2 è un coronavirus a singolo filamento di RNA, presente in diversi vertebrati, che entra nelle cellule ospiti utilizzando come recettore di membrana l’enzima di conversione dell’angiotensina 2 (ACE2), un enzima che pur essendo quasi ubiquitario sulla membrana cellulare dell’essere umano, è presente soprattutto a livello del cuore, del polmone, del rene e dell’intestino1. Pertanto, i pazienti con preesistenti problemi cardiovascolari e respiratori sono quelli più esposti a sviluppare gravi complicanze della malattia2.

L’Italia è stato uno dei primi paesi dell’occidente in cui è iniziata le diffusione della pandemia3, i primi casi furono diagnosticati a fine gennaio 2020 su due turisti cinesi in vacanza in Italia, mentre il 21 febbraio a Codogno è stata fatta la prima diagnosi in Italia di COVID-19.

Da allora in poi si è assistito ad una escalation di contagi non solo in Italia, ma in tutto il mondo. Il 9 marzo 2020, per contenere la diffusione dei contagi, l’Italia è stato il primo paese occidentale che ha imposto il primo lockdown su tutto il territorio nazionale4.

Nonostante ciò, il numero dei contagiati è aumentato vertiginosamente, tant’è che a fine marzo 2020 si contarono circa 86 000 contagi, con un picco di 919 decessi in una sola giornata (Figura 1).




Grazie alle misure restrittive, si è poi assistito ad una riduzione della mortalità, e il 24 giugno 2020, per la prima volta dopo cica 4 mesi di epidemia, non venne registrato nessun decesso da SARS-CoV-2. Dai primi giorni del mese di ottobre per cause diverse (aperture delle scuole, sovraffollamento sui mezzi pubblici di trasporto, misure di prevenzione meno restrittive, ecc.), il numero dei contagi è aumentato e si è parlato di “seconda ondata” e di “terza ondata”, costringendo le autorità governative a scegliere nuovamente misure restrittive. Nonostante queste misure, questa fase è stata caratterizzata per l’elevato numero di contagi e decessi, con un ulteriore picco record di 993 vittime a dicembre 2020 (Figura 1).

Il tasso di mortalità è uno degli indicatori più importanti per analizzare la gravità e l’impatto della pandemia. In Italia, i dati di mortalità nel 2021, nei pazienti positivi al COVID-19, riportano un’incidenza del 3.3% anche se il dato sulla mortalità è, per molte ragioni, uno dei più controversi.

In un report sulla sorveglianza sanitaria dell’Istituto Superiore di Sanità (ISS), la mortalità totale per SARS-CoV-2 nell’anno solare che va da marzo 2020 a marzo 2021 è stata di circa 96 141 morti, con una percentuale variabile a seconda delle regioni. È stato inoltre riportato che l’età media dei pazienti deceduti, positivi al SARS-CoV-2, è di 81 anni, con una incidenza più elevata negli uomini rispetto alle donne (56.1% vs 43.9%). I dati aggiornati all’1 marzo 2021 riportano che i decessi nei pazienti di età <50 anni affetti da SARS-CoV-2 sono stati 1055 su 96 141 (1.1%).

Un dato molto interessante riportato nel report dell’ISS riguarda l’impatto delle patologie preesistenti nei pazienti deceduti. In un’analisi su un campione di 6713 deceduti per COVID-19, le patologie preesistenti più frequenti erano quelle cardiovascolari (27.9% cardiopatia ischemica, 24.3% fibrillazione atriale [FA] cronica, 15.9% scompenso cardiaco, 11.6% ipertensione arteriosa sistemica e 11.6% pregresso ictus). Il diabete mellito era presente nel 29.3% dei pazienti deceduti, l’insufficienza renale cronica (IRC) nel 21.2%, la broncopneumopatia cronica ostruttiva nel 17.3%, le malattie neoplastiche nel 16.7%, l’obesità nell’11%. Il 66.6% dei pazienti deceduti aveva tre o più patologie associate preesistenti prima di sviluppare l’infezione da SARS-CoV-2. Va sottolineato, comunque, che il 3.1% dei pazienti deceduti in questo campione analizzato non aveva nessuna patologia preesistente.

Tra le complicanze che più frequentemente hanno portato al decesso, l’insufficienza respiratoria grave era presente nel 93.7%, l’insufficienza renale acuta nel 24.5%, le sovrainfezioni nel 19.7%, il danno miocardico acuto nel 10.7%. Alla data del 6 marzo 2021 l’infezione da SARS-CoV-2 in Italia ha contagiato circa 3 073 000 pazienti, con un numero di decessi prossimo alle 100 000 vittime (99 885), mentre ammontano a circa 2 500 000 i pazienti considerati guariti. In uno sforzo senza precedenti la ricerca scientifica, in poco più di 10 mesi, ha disegnato, sperimentato e reso utilizzabili quattro vaccini per questa pandemia, ed a breve ce ne saranno molti altri. Tuttavia, il limitato numero di dosi oggi disponibili richiede una priorità temporale nella scelta dei soggetti da vaccinare. Lo stato, la politica e la sanità devono confrontarsi con l’enorme problema etico di come allocare le risorse limitate del vaccino anti-COVID-19, che ha dimostrato una sicurezza ed efficacia nel prevenire la malattia. Ad oggi (17 marzo 2021) circa 2 000 000 persone hanno ricevuto il vaccino completo (il 3% della popolazione), mentre negli Stati Uniti si effettuano 4 milioni di vaccinazioni al giorno.

Le conseguenze sui pazienti con malattie cardiovascolari della pandemia COVID-19 sono state enormi. Nella prima fase si è osservata una riduzione delle ospedalizzazioni per infarto e per scompenso cardiaco di circa il 50% con una mortalità ospedaliera per infarto miocardico con sopraslivellamento del tratto ST triplicata5,6.

Pertanto, una grande attenzione dovrebbe essere posta nel prevenire le conseguenze negative della pandemia in pazienti con malattie cardiovascolari. Le leggi sui diritti dell’uomo stabiliscono che la “vulnerabilità”, la fragilità medica e quella sociale dovrebbero essere utilizzate come criterio per l’accesso prioritario ai vaccini anti-COVID-19. Gli schemi nazionali di assegnazione dei vaccini hanno previsto prima la copertura del personale sanitario, ma, in molte regioni, la vaccinazione è stata anche effettuata nei soggetti a basso rischio. Poiché in caso di infezione, la prognosi è nettamente peggiore nei soggetti fragili, come quelli già affetti da patologie cardiovascolari, è necessaria una programmazione prioritaria di allocazione dei piani vaccinali. L’età avanzata si associa a numerose comorbilità e, conseguentemente, a un rischio maggiore in caso di infezione da COVID-19. I rapporti del Centers for Disease Control and Prevention americano dimostrano che rispetto ai pazienti di età compresa tra 18 e 29 anni con COVID-19, quelli di età >75 anni hanno un rischio di ospedalizzazione 8 volte maggiore e un rischio di morte 220 volte maggiore. Negli Stati Uniti è stata data la priorità a tutti gli individui di età ≥65 anni (circa 55 milioni di persone), che rappresentano circa l’80% dei decessi per COVID-197.

Infine, per i pazienti fragili con cardiopatie ed altre patologie si rende necessaria una semplificazione delle procedure di prenotazione della vaccinazione e un superamento delle barriere per l’accesso alla vaccinazione, prevedendo, ad esempio, la possibilità di effettuare il vaccino a casa e di creare siti di vaccinazione vicini ai trasporti pubblici con orari di apertura facilmente accessibili.

Il Consiglio dei Ministri, in data 11 marzo 2021, ha stabilito il piano di priorità per la vaccinazione anti-SARS-CoV-2/COVID-19 (Tabella 1).




Nella categoria 1, i pazienti ad elevata fragilità, per quanto riguarda le patologie cardiovascolari vi sono i pazienti affetti da “scompenso cardiaco in classe avanzata III-IV” e i pazienti “post-shock cardiogeno”. Questa classificazione pone sullo stesso piano, per quanto riguarda le patologie cardiovascolari, tutti i pazienti di età <79 anni che non abbiano uno “scompenso in classe NYHA III-IV” o “ post-shock cardiogeno”, e pertanto da non ritenersi eticamente accettabile in un’epoca di riduzione delle risorse vaccinali.

Lo scopo di questo position paper della Società Italiana di Cardiologia (SIC) è quello di stabilire il rischio di complicanze nei pazienti affetti dall’infezione del virus SAR-CoV-2 in base alle differenti patologie cardiovascolari preesistenti.

METODOLOGIA

Nel presente documento sono state riportate tutte le evidenze disponibili in letteratura e quando esse non erano specificatemene disponibili si è raggiunto una maggioranza di consenso tra gli autori.

VACCINI DISPONIBILI E GRADO DI PROTEZIONE

Il SARS-CoV-2 attraverso la proteina spike (S) presente sulla sua superficie esterna è in grado di riconoscere e legare il recettore ACE2, che è la porta di ingresso del virus nelle cellule del nostro organismo. Per via della sua fondamentale importanza nel processo di infezione, la proteina S di SARS-CoV-2 è uno dei bersagli farmacologici più studiati. La proteina S svolge infatti anche un ruolo chiave nell’induzione delle risposte degli anticorpi neutralizzanti e dei linfociti T durante l’infezione da SARS-CoV-2. La ricerca scientifica a livello globale ha compiuto un’impresa senza precedenti rendendo disponibili in meno di un anno dal primo sequenziamento del virus SARS-CoV-2, diversi vaccini efficaci e sicuri che forniscono una reale speranza per porre fine al più presto alla pandemia. La vaccinazione di massa, infatti, rimane la strategia più importante per contrastare la malattia respiratoria acuta da SARS-CoV-2.

Diversi modelli di vaccini sono stati studiati e sono attualmente disponibili con eccellente profilo di efficacia e sicurezza. I vaccini anti-COVID-19 attualmente autorizzati per l’uso e altri per i quali sono disponibili dati clinici in fase avanzata sono riassunti nella Tabella 2.




Vaccini a RNA messaggero

Pfizer-BioNTech e Moderna hanno sviluppato vaccini, attualmente approvati anche in Italia, a base di RNA messaggero (mRNA). In questi vaccini, nanoparticelle lipidiche vengono utilizzate per trasportare l’mRNA (codificante la proteina S) nello spazio intracellulare. Quando il vaccino viene iniettato, la capsula di lipidi trasporta il suo carico di mRNA nelle cellule umane determinando la costruzione della proteina S nella superfice delle cellule, insegnando così al sistema immunitario a riconoscere la proteina S e quindi a difenderci dal coronavirus dato che questo utilizza proprio la proteina S per legarsi alle cellule umane.

L’efficacia del vaccino BNT162b2 (Pfizer-BioNTech) nel prevenire la malattia sintomatica da COVID-19 è stata valutata in un trial in doppio cieco e controllato con placebo su circa 44 000 partecipanti con età >16 anni8. L’efficacia del vaccino dopo 7 giorni dalla somministrazione della seconda dose è stata del 95% (intervallo di confidenza [IC] 95% 90.3-97.6) in partecipanti senza precedente evidenza di infezione da SARS-CoV-2. Le analisi dei sottogruppi hanno mostrato stime di efficacia simili per età, sesso, gruppi razziali ed etnici in partecipanti con comorbilità associate ad alto rischio di COVID-19 grave.

L’efficacia del vaccino mRNA-1273 (Moderna) nel prevenire la malattia sintomatica da COVID-19 è stata valutata in un trial controllato con placebo su circa 30 000 pazienti con più di 18 anni9. Il vaccino è risultato sicuro e ben tollerato con un’efficacia del 94.1% (IC 95% 89.3-96.8) nel prevenire la malattia sintomatica da COVID-19 dopo 14 giorni dalla somministrazione della seconda dose.

Le reazioni avverse più comuni sono state reazioni nel sito di iniezione o comuni sintomi di attivazione immunitaria (febbre, brividi, affaticamento, mialgie, mal di testa). Le reazioni anafilattiche sono state rarissime confermando l’estrema sicurezza dei vaccini.

Vaccini con vettore virale

I vaccini con vettori virali utilizzano virus con deficit di replicazione progettati per esprimere la sequenza genica dell’antigene di interesse nelle cellule ospiti. Il vaccino ChAdOx1 (AstraZeneca/Oxford), approvato in Italia, utilizza l’adenovirus dello scimpanzé come vettore per la produzione della proteina S. La sua efficacia nel prevenire la malattia sintomatica da COVID-19 dopo 14 giorni dalla somministrazione della seconda dose è stata analizzata in un trial randomizzato con dati disponibili su circa 11 500 partecipanti. L’efficacia complessiva è stata del 70.4% (IC 95% 54.8-80.6). Nei partecipanti che hanno ricevuto due dosi standard, l’efficacia del vaccino è stata del 62.1% (IC 95% 41.0-75.7) e nei partecipanti che hanno ricevuto una bassa dose seguita da una dose standard, l’efficacia è stata del 90.0% (IC 95% 67.4-97.0)10.

Altri due vaccini, uno che utilizza in una singola somministrazione il vettore adenovirus sierotipo 26 (Ad26.CoV2.S; Johnson & Johnson), ed un altro che utilizza due differenti adenovirus (26 e 5) per le due dosi di vaccino (Gam-COVID-Vac Sputnik; Gamaleya Institute) hanno attualmente dati di efficacia clinica (Tabella 2). Il vaccino Johnson & Johnson è stato approvato in Italia. I risultati su 20 000 soggetti vaccinati con Sputnik V sono stati pubblicati su Lancet e dimostrano un’efficacia nel prevenire la malattia sintomatica nel 91% dei casi11.

Vaccini a subunità proteica e vaccini inattivati

Un altro approccio allo sviluppo del vaccino è il rilascio della proteina S come subunità proteica ricombinante. Novavax ha prodotto un vaccino a base proteica contenente minuscole particelle ottenute da una versione prodotta in laboratorio della proteina S. Molti vaccini attualmente in fase di sviluppo utilizzano un approccio di subunità proteica, sebbene ancora nessuno sia autorizzato per l’uso. Vaccini inattivati derivati da virus cresciuti in coltura e quindi inattivati chimicamente sono stati prodotti da Sinopharm e Sinovac, e sono disponibili in Cina.

PATOLOGIE CARDIOVASCOLARI, COVID-19
E OUTCOME CLINICO

Scompenso cardiaco e COVID-19

Numerosi sono gli studi multinazionali che hanno dimostrato come i pazienti affetti da patologie cardiovascolari siano maggiormente a rischio di sviluppare complicanze potenzialmente letali, in caso di infezione da SARS-CoV-2 e in tale contesto, lo scompenso cardiaco è risultato essere la condizione maggiormente in grado di condizionare una prognosi sfavorevole12. Indipendentemente dall’eziologia, lo scompenso cardiaco determina infatti uno status di vulnerabilità individuale, cui contribuiscono numerosi fattori, quali un peggiore stato funzionale, una tendenza alla ridotta ossigenazione tessutale, una ridotta capacità dell’organismo di rispondere in maniera adeguata agli insulti esterni, oltre alla predisposizione ad una instabilità emodinamica che facilita le riacutizzazioni dello scompenso, in presenza di una condizione infiammatorio-infettiva. Il rischio di complicanze, in caso di scompenso cardiaco cronico, risulta più elevato non solamente a causa dell’età spesso avanzata del paziente o per la presenza di comorbilità, ma anche per le specifiche caratteristiche cliniche e fisiopatologiche dell’infezione da SARS-CoV-213. Infatti, è stato evidenziato come tale condizione possa provocare danno miocardico e riacutizzazione di scompenso cardiaco in conseguenza dello sviluppo di una sindrome iper-infiammatoria correlata ad una tempesta citochinica14. Vi è dunque ad oggi una chiara evidenza del fatto che in un paziente affetto da COVID-19 la presenza di una forma di scompenso cardiaco cronico si associ ad una prognosi peggiore.

In particolare, in uno studio effettuato a Wuhan (Cina), su 799 pazienti ospedalizzati per COVID-19 con scompenso cardiaco preesistente, è stato osservato che il 49% dei pazienti era andato incontro a morte, mentre solo il 3% aveva superato l’infezione15. Tale dato è stato confermato anche in una casistica relativa a pazienti ricoverati per COVID-19 in un centro del Nord Italia, dei quali il 21% era affetto da scompenso cardiaco e di questi il 63.2% era deceduto durante il ricovero16.

Lo scompenso cardiaco è stato ampiamente riconosciuto come un fattore predittivo indipendente di prognosi peggiore e mortalità durante ricovero per infezione da SARS-CoV-2 ed i livelli plasmatici del frammento N-terminale del propeptide natriuretico di tipo B (NT-proBNP) possono essere predittivi di morte intraospedaliera nei pazienti ricoverati per una forma clinica grave di COVID-1917. Uno studio della SIC è stato il primo a riportare una riduzione del 46% delle ospedalizzazioni per scompenso cardiaco durante la prima fase della pandemia, per paura del contagio e/o per la focalizzazione del sistema sanitario sul COVID-194.

Un altro dato meritevole di attenzione riguarda l’impatto della riduzione dell’accessibilità alle visite di controllo, come conseguenza da un lato del timore del contagio in ospedale, dall’altro della ridotta disponibilità di risorse per la cura dei pazienti non-COVID-19. Questi aspetti hanno verosimilmente contribuito a un peggioramento delle condizioni cliniche nei pazienti ricoverati per scompenso cardiaco acuto durante l’intera fase di pandemia, come attestato dai risultati di numerosi studi condotti durante la pandemia18.

A tal proposito, è esplicativo quanto osservato in uno studio effettuato in un singolo centro in Inghilterra relativo a 283 pazienti ricoverati per scompenso cardiaco acuto (di cui due terzi presentavano una destabilizzazione di uno scompenso cronico). In tale casistica, è stato evidenziato un calo del 27% (ai limiti della significatività statistica; p=0.06) dei ricoveri per scompenso rispetto al periodo immediatamente precedente la pandemia (gennaio-febbraio 2020) ma, al contempo, un raddoppio della mortalità osservata a 30 giorni (rischio relativo [RR] 1.9). Gli unici fattori risultati predittori indipendenti di mortalità all’analisi multivariata sono stati l’età e la presenza di infezione da SARS-CoV-2, e valutando la mortalità sulla base dell’età superiore o inferiore a 80 anni, si riconfermava il dato di incremento della mortalità durante la pandemia in entrambi i gruppi, ma con un risultato più evidente nel gruppo di pazienti di età inferiore (6.3% vs 13.9%, log-rank 3.7, p=0.05) rispetto ai pazienti più anziani (18% vs 23.2%, log-rank 2.6, p=0.11). Queste evidenze suggerirebbero una interazione diretta o una suscettibilità ad una peggiore prognosi nei pazienti con scompenso cardiaco acuto o cronico riacutizzato, in presenza di sovra-infezione da COVID-19, indipendentemente dall’età del paziente19.

Sicuramente il solo dato anagrafico non è sufficiente per definire la gerarchia di priorità e i gruppi target per le campagne di vaccinazione anti-SARS-CoV-2. Infatti, anche se prevalenza ed incidenza di scompenso cardiaco e comorbilità associate aumentano progressivamente con l’età, quadri clinico-funzionali ad elevato rischio di prognosi infausta in corso di infezione da SARS-CoV-2 possono essere riscontrati anche in soggetti giovani e adulti, in considerazione delle diverse eziologie che caratterizzano questa sindrome in altre fasce di età20. Anche il grado e il tipo di disfunzione ventricolare sinistra non sembrano tuttavia essere forti predittori di prognosi peggiore21.

Chiaramente, i pazienti con una forma di scompenso cardiaco avanzato (in stadio C-D secondo la classificazione dell’American College of Cardiology/American Heart Association [ACC/AHA])22 o fortemente sintomatici (in classe NYHA III-IV) sono da considerarsi maggiormente a rischio di prognosi infausta in caso di infezione da SARS-CoV-2.

Non vi è inoltre alcun dubbio che i pazienti con uno scompenso cardiaco riacutizzato, in corso di instabilità emodinamica e/o con uno status funzionale peggiore, debbano essere considerati a rischio ancora più elevato di morte per COVID-1923.

Tuttavia dobbiamo considerare che anche i pazienti con una forma di scompenso cardiaco stabile (in stadio B oppure C) e con quadro clinico-funzionale meno severo (classe NYHA I-II), possono andare incontro ad un repentino peggioramento della loro condizione clinico-emodinamica, in caso di infezione da SARS-CoV-2 e vanno quindi inclusi nella gerarchia di priorità vaccinale (Figura 2).




È infatti noto come il COVID-19 possa causare riacutizzazione in pazienti affetti da una forma di scompenso cardiaco stabile cronico, ragion per cui, anche in passato, era stata sottolineata l’importanza della vaccinazione anti-influenzale nei pazienti con scompenso cardiaco24.

Ipertensione polmonare e COVID-19

L’ipertensione polmonare è una sindrome che può derivare da numerose condizioni cliniche e che può rendersi responsabile di un peggioramento di molteplici quadri patologici cardiovascolari e respiratori. Nella sola Inghilterra si stima una prevalenza di 97 casi per milione di abitanti, con un rapporto femmine/maschi di 1.825.

La forma di ipertensione polmonare più comune è quella che rientra nella “classe II” (derivante cioè da una condizione patologica del cuore sinistro), con un’epidemiologia che rispecchia nei fatti quella dello scompenso cardiaco congestizio; a seguire le forme dovute a patologie polmonari (classe III) e le forme tromboemboliche (classe IV). Invece, la forma di ipertensione polmonare definita “primitiva” (appartenente cioè alla classe I) deriva in parte da disordini di origine genetica, in parte da disordini correlati a connettivopatie (prima fra tutte la sclerosi sistemica o sclerodermia). Tali condizioni interessano frequentemente soggetti in età giovane-adulta, con un’età media alla diagnosi fra 50 e 65 anni, nei diversi registri epidemiologici25.

I pazienti con ipertensione polmonare presentano un aumentato rischio di morte se colpiti da COVID-19, nonostante i dati a riguardo siano attualmente limitati 23. Ciò sembra essere legato, in parte, alla ridotta capacità di ossigenazione tessutale e alla tendenza alla desaturazione che il paziente affetto da ipertensione polmonare presenta indipendentemente dall’infezione virale, e che rende spesso necessario il ricorso all’ossigenoterapia. Questi fattori ovviamente contribuiscono ad aggravare la prognosi del paziente in corso di infezione da SARS-CoV-2. L’analisi di dati raccolti durante la pandemia COVID-19 in 77 centri statunitensi specializzati nella cura dell’ipertensione polmonare ha messo in evidenza come, nonostante l’incidenza di infezione da SARS-CoV-2 risultasse sovrapponibile fra soggetti affetti da ipertensione polmonare e popolazione generale (circa 2.9 casi per 1000 pazienti), il tasso di ospedalizzazione risultava essere significativamente più elevato nei pazienti affetti da tale patologia, intorno al 30%26. Inoltre, il loro tasso di mortalità risultava essere significativamente maggiore rispetto a quello della popolazione generale, attestandosi intorno al 12%. A giustificazione dei dati osservati di elevata ospedalizzazione e mortalità, come sottolineato dagli autori nello studio, debbono essere presi in considerazione non solo il danno diretto associato all’infezione da COVID-19, ma anche un possibile effetto peggiorativo sulla prognosi di tali pazienti dovuto ad una minore possibilità di accesso alle cure e ai test diagnostici specialistici durante il periodo della pandemia.

Nonostante non siano stati tuttora eseguiti studi che valutino, nei pazienti ospedalizzati per COVID-19, l’impatto che la gravità dell’ipertensione polmonare ha in termini di outcome, è verosimile che i pazienti con una forma avanzata di ipertensione polmonare (classe NYHA III-IV) o quelli che debbano essere sottoposti a valutazione per eventuale trapianto polmonare, costituiscano una classe fortemente a rischio di prognosi infausta in caso di contagio da parte del SARS-CoV-2, più dei pazienti con ipertensione polmonare meno severa (classe NYHA I-II)23.

Trapianto cardiaco e COVID-19

I pazienti sottoposti a trapianto cardiaco (TC), a causa del loro stato di immunosoppressione, sono ad altissimo rischio di essere contagiati da COVID-19 e sviluppare la malattia nella forma aggressiva. Le complicanze infettive successive al TC sono una delle principali cause di morbilità e mortalità. In questi soggetti, a causa dell’immunosoppressione, sono caratteristici un periodo prolungato di incubazione delle infezioni, sintomi di complicanze infettive atipiche con risultati inizialmente alterati della diagnosi strumentale di laboratorio. Attualmente non ci sono grandi trial sulla popolazione con TC ed infezione da COVID-19; tuttavia sono presenti una serie di dati provenienti da tutto il mondo dove si è documentata una prognosi peggiore in questi pazienti dopo aver contratto l’infezione. Recentemente uno studio italiano27, condotto nel nord Italia, ha valutato 47 pazienti con TC risultati positivi al COVID-19. In questa coorte analizzata, 38 pazienti hanno necessitato di un ricovero ospedaliero mentre 9 sono rimasti in regime di quarantena domiciliare per un totale di 14 decessi. Rispetto alla popolazione generale si è riscontrata una prevalenza (18 vs 7 casi su 1000) ed un tasso di mortalità (29.7% vs 15.4%) duplicati. I fattori maggiormente associati ad un’elevata mortalità intraospedaliera sono stati l’età avanzata (p=0.002), il diabete mellito (p=0.040), l’arteriopatia periferica (p=0.040), la pregressa angioplastica (p=0.040), la vasculopatia del cuore trapiantato (p=0.039), l’IRC (p= 0.004) e le classi funzionali NYHA più elevate (p=0.023). In Germania, uno studio condotto su 21 pazienti con TC colpiti da infezione da COVID-19 ha documentato che il 38.1% ha richiesto un trattamento con ventilazione meccanica e di questi è deceduto l’87.5%28. Risultati sovrapponibili sono stati descritti in ulteriori studi condotti negli Stati Uniti29.

Uno studio condotto in Russia ha invece documentato come nei pazienti con TC, per controllare al meglio l’infezione, sia stata necessaria l’interruzione di terapie immunosoppressive come l’acido micofenolico e l’everolimus30. Da questi dati si evince quindi come i pazienti con TC a causa delle loro comorbilità e del loro stato di immunosoppressione, siano ad alto rischio di contrarre l’infezione da COVID- 19 e di sviluppare una severa sintomatologia respiratoria con ridotti outcome di sopravvivenza nonostante la ventilazione meccanica. Sono inoltre da considerare ad alto rischio sia i pazienti in attesa di ricevere un TC che quelli nei quali sia stato posizionato un dispositivo di assistenza ventricolare come “bridge” o come “destination therapy” a prescindere dalla loro candidabilità al trapianto23. Questi dati evidenziano come questi soggetti siano estremamente vulnerabili all’infezione da COVID-19 e di come un trattamento profilattico vaccinale precoce possa dimostrarsi essere un’arma fondamentale nell’aumentare gli outcome di sopravvivenza.

Insufficienza renale e COVID-19

Il Global Burden of Diseases Study (GBD) fornisce annualmente informazioni sulla salute della popolazione in tutto il mondo, ed ha recentemente valutato a livello mondiale la prevalenza dei fattori di rischio nei pazienti che sviluppano l’infezione da COVID-19 con sintomatologia grave. Da questa analisi è emerso che la popolazione globale ad alto rischio per COVID-19 sarà di 1.7 miliardi di persone, pari al 22% della popolazione mondiale, e di questi, 349 milioni necessiteranno di un’ospedalizzazione. Se però ripetessimo l’analisi non considerando tra i fattori di rischio l’IRC, si ridurrebbe la percentuale dal 22% al 17%. L’IRC è quindi un importante fattore di rischio globale per oltre un quarto degli individui, pari al 5% della popolazione mondiale, all’incirca 86 530 000 persone ed identificata pertanto come il fattore di rischio più diffuso nelle infezioni gravi da COVID-19 in modo direttamente proporzionale al grado di riduzione del filtrato glomerulare. È stato inoltre ampiamente documentato che la mortalità nei pazienti con IRC è maggiore rispetto a quella della popolazione generale31. L’analisi dei fattori di rischio associati al decesso per COVID-19 in 17 milioni di soggetti, ha recentemente concluso come l’IRC sia un fattore di rischio indipendente di morte da COVID-19. La dialisi (hazard ratio aggiustato [aHR] 3.69), il trapianto di organi (aHR 3.53) e l’IRC (aHR 2.52 per pazienti con filtrato glomerulare stimato <30 ml/min/1.73 m2) rappresentano tre delle quattro comorbilità associate a più alto rischio di mortalità per COVID-1932. Una recente metanalisi condotta su 76 993 pazienti ha classificato l’IRC tra le sette più diffuse patologie associate tra i pazienti ospedalizzati per COVID-19 insieme a ipertensione arteriosa, malattie cardiovascolari e diabete mellito33. I risultati del registro ERA-EDTA (European Renal Association-European Dialysis and Transplant Association) supportano ulteriormente l’elevata mortalità dovuta a COVID-19 nei pazienti in dialisi e trapianto renale. La mortalità a 28 giorni è stata infatti del 20.0% (IC 95% 18.7-21.4%) in 3285 pazienti sottoposti a dialisi e del 19.9% (IC 95% 17.5-22.5%) in 1013 trapiantati renali34. In entrambi i gruppi, la mortalità è inoltre da correlarsi all’età dei pazienti in dialisi ed anche al loro stato di “fragilità”. Inoltre, nei pazienti dializzati, i frequenti accessi ospedalieri possono aumentare il rischio di infezione in maniera esponenziale. La vaccinazione è un metodo efficace ed economico per ridurre la morbilità e la mortalità correlate alle infezioni. Tuttavia l’efficacia del vaccino non è stata testata a fondo nei soggetti con IRC. Nonostante siano stati eseguiti numerosi studi sui vaccini per il COVID-19, non è noto se i risultati siano stati validati anche nei soggetti con IRC, in particolare in quelli in trattamento dialitico o in terapia cronica immunosoppressiva per il trattamento della glomerulonefrite o del trapianto di rene. Glenn et al.35 hanno recentemente condotto una metanalisi sull’efficacia e sicurezza dei vaccini in questo sottogruppo di pazienti. Dopo avere analizzato oltre 200 trial, è stato osservato come l’IRC sia stata esclusa dal 16% degli studi, l’IRC avanzata invece nel 33%. Negli studi di fase 3, soltanto il 39.4% includeva pazienti con IRC lieve/moderata. Il 78% dei trial ha escluso i soggetti che ricevevano una terapia immunosoppressiva post-trapianto di rene, mentre gli immunocompromessi sono stati esclusi nell’86% degli studi. Il Centers for Disease Control and Prevention americano raccomanda comunque che i soggetti ad elevato rischio, compresi quelli con IRC, vengano vaccinati in maniera prioritaria in quanto il rischio di ospedalizzazione associato a COVID-19 aumenta con il numero delle comorbilità, arrivando fino a 5 volte se presenti tre o più patologie36. L’alta prevalenza di IRC in combinazione con l’elevato rischio di mortalità per COVID-19 richiede un trattamento preventivo tempestivo. È fondamentale quindi, una vaccinazione precoce dei pazienti in tutti gli stadi dell’IRC, inclusa la dialisi e nei i pazienti trapiantati.

Patologia valvolare cardiaca e COVID-19

Come noto, nei pazienti con patologia valvolare severa, indipendentemente dalla tipologia, insufficienza o stenosi, e dalla valvola coinvolta, la comparsa dei sintomi rappresenta l’elemento chiave sia in termini prognostici che di indicazione al trattamento chirurgico o percutaneo. Di particolare rilevanza è la presenza di sintomi e segni di scompenso cardiaco relati alla patologia valvolare, infatti i pazienti affetti da SARS- CoV-2 e da insufficienza cardiaca sintomatica sono a rischio elevatissimo di prognosi infausta37. Traslando quanto riportato, in termini di priorità alla vaccinazione, i pazienti affetti da patologia valvolare severa sintomatica dovrebbero prioritariamente essere vaccinati indipendentemente dall’età. In assoluto tutti i pazienti in lista per un trattamento chirurgico o percutaneo dovrebbero ricevere una vaccinazione prioritaria. In tal senso sono numerose le esperienze riportate in letteratura di centri che, per ridurre il tempo di ospedalizzazione dei pazienti (potenziale contagio intraospedaliero), i giorni di degenza in terapia intensiva e l’anestesia generale, hanno riferito ad impianto transcatetere di valvola aortica pazienti con patologia valvolare aortica che normalmente sarebbero stati trattati con sostituzione valvolare chirurgica38,39. Questo dato evidenzia ulteriormente che la popolazione di pazienti con stenosi valvolare aortica sintomatica presenta un rischio elevatissimo sia per il limitato accesso alle cure sia per l’eventuale rischio derivante dalla positivizzazione al COVID-19. Nelle fasi di lockdown, il grave prolungamento delle liste d’attesa dei pazienti candidati a sostituzione valvolare aortica, chirurgica o percutanea, nonché a trattamento della patologia mitralica, ha ulteriormente incrementato la necessità di una corretta stratificazione in termini prognostici dei pazienti che prioritariamente devono essere trattati. Volendo traslare questo concetto in termini di vaccinazione, i pazienti sintomatici con stenosi aortica ad altissima priorità clinica possono essere considerati quelli che presentano una o più delle seguenti caratteristiche cliniche: (1) insufficienza cardiaca avanzata (stadio III-IV); (2) disfunzione ventricolare sinistra (frazione di eiezione <50%); (3) sincope.

Infine, la Figura 3 riporta un possibile ordine gerarchico in termini di priorità alla vaccinazione dei pazienti con patologia valvolare40.




PRIORITÀ DELLA VACCINAZIONE PER COVID-19 NEI PAZIENTI CON MALATTIA CORONARICA

Un segno distintivo del COVID-19 grave è la coagulopatia, che, in alcuni pazienti, diventa una coagulazione intravascolare disseminata41. Si tratta di un fenomeno prevalentemente pro-trombotico, con alti tassi di tromboembolia venosa, trombosi microvascolare, livelli elevati di D-dimero e fibrinogeno e bassi livelli di antitrombina. Inoltre il ritonavir, utilizzato nei pazienti con grave malattia COVID-19, riduce i livelli del metabolita attivo del clopidogrel. Il numero basso di piastrine, spesso descritto nei pazienti COVID-19, suggerisce un aumento del consumo dovuto a una massiccia attivazione piastrinica e alla formazione di trombi. Le piastrine attivate esprimono anche un fattore tissutale funzionalmente attivo in modo che siano in grado di innescare la cascata della coagulazione42. È stato inoltre ipotizzato che la destabilizzazione della placca coronarica possa verificarsi in pazienti con eccessiva risposta infiammatoria caratterizzata dalla tempesta di citochine. L’impatto della pandemia sulla malattia coronarica è rafforzato dai recenti dati che suggeriscono l’ipotesi che il COVID-19 sia sostanzialmente una patologia dell’endotelio, certamente per quanto riguarda le sue complicanze. Questa ipotesi suggestiva può aiutare a capire la complessa fisiopatologia del COVID-19 nei pazienti con aterosclerosi coronarica e supporta un’indicazione prioritaria per questa tipologia di pazienti alla vaccinazione43.

Malattia aterosclerotica cardiovascolare e COVID-19

La presenza di malattia aterosclerotica cardiovascolare è associata ad un aumento di esiti avversi con infezione da COVID-19. Un precedente infarto miocardico è risultato associato a maggiori probabilità di morte da COVID-19 (odds ratio [OR] 1.97, IC 95% 1.64-2.35) mentre la presenza di malattia coronarica preesistente è risultata associata a un rischio più elevato di intubazione orotracheale e morte rispetto all’assenza di malattia coronarica (RR 1.88, IC 95% 1.52-2.35 e RR 2.24, IC 95% 1.98-2.55)44.

Una recente metanalisi ha dimostrato che nei pazienti ospedalizzati per COVID-19 la diagnosi di malattia coronarica era già nota alla presentazione nell’11.67% (IC 95% 7.34-16.84)45.

La malattia coronarica (tronco comune, trivasale, bivasale con interessamento dell’arteria interventricolare prossimale) non rivascolarizzata e la malattia coronarica rivascolarizzata con ischemia residua e/o disfunzione ventricolare sono da considerarsi ad alto rischio, mentre la malattia coronarica rivascolarizzata con stenting di vasi prossimali dovrebbe essere considerata a rischio intermedio.

Infarto miocardico e COVID-19

Dopo la prima fase pandemica l’attuazione di percorsi dedicati per i pazienti COVID-19 ha sostanzialmente garantito l’accesso alle cure per tutti i pazienti con infarto miocardico46.

Nonostante i continui miglioramenti e la maggiore sicurezza degli stent, la trombosi dello stent rimane oggi la più grave complicanza dell’angioplastica coronarica percutanea, data la crescente complessità delle lesioni e della fragilità dei pazienti trattati, con una mortalità associata che può raggiungere il 45%47.

La risposta infiammatoria eccessiva e l’aumentato stato di ipercoagulabilità associate al COVID-19 possono innescare una sindrome coronarica acuta per trombosi dello stent48.

Ovviamente la trombosi dello stent può essere precipitata nei pazienti con COVID-19 da diversi potenziali fattori come la sottoespansione o la malapposizione dello stent, stent lunghi, vasi di piccolo calibro, doppio stent in biforcazione, diabete, ecc., che possono predisporre alla trombosi dello stent. Inoltre, l’infiammazione e lo stato pro-trombotico, che è caratteristico dell’infezione da COVID-19, può costituire l’evento scatenante che provoca la trombosi precoce o tardiva dello stent.

I pazienti con pregresso infarto miocardico e disfunzione ventricolare sinistra dovrebbero essere considerati ad alto rischio.

Fattori di rischio cardiometabolici (obesità, diabete ed ipertensione arteriosa) e COVID-19

Un’elevata prevalenza di fattori di rischio cardiometabolici, comprendenti ipertensione arteriosa, diabete di tipo 2 ed obesità, è stata osservata sin dall’inizio della pandemia nei pazienti affetti da COVID-19 che necessitavano di ospedalizzazione e che mostravano un decorso della malattia più severo o andavano incontro ad esito infausto23. Da queste osservazioni è scaturito il concetto che la presenza di tali comorbilità, singolarmente ed ancor di più in associazione tra loro, rappresenti un fattore di rischio per lo sviluppo di infezione più severa. È tuttavia da sottolineare che molti dei dati riportati, soprattutto all’inizio, mostravano criticità nell’analisi statistica, in particolare per la mancata correzione dei dati per l’effetto confondente dell’età, alla quale è linearmente legata la prevalenza soprattutto di ipertensione, e che di per sé costituisce un rilevante fattore di rischio sfavorevole per la prognosi dei pazienti affetti da COVID-19. Dal punto di vista fisiopatologico tali osservazioni appaiono largamente plausibili, in considerazione delle alterazioni di tipo infiammatorio, della funzione endoteliale ed immunitarie che contraddistinguono tali comorbilità e che sono responsabili del viraggio verso l’esito infausto dell’infezione da COVID-19. Tuttavia, la maggior parte delle associazioni riportate ha considerato in maniera dicotomica la presenza o l’assenza del fattore di rischio, prescindendo dalla gravità dello stesso e dal grado di controllo terapeutico. Quest’ultimo aspetto, recentemente tenuto in considerazione nel documento di consenso rilasciato dall’ACC23, appare di notevole rilevanza nella pianificazione di percorsi prioritari di accesso alla vaccinazione, se si considera che il mancato controllo del diabete mellito o dell’ipertensione, o l’obesità non severa (indice di massa corporea [BMI] <40 kg/m2), riguarda sottopopolazioni numericamente limitate dei pazienti ipertesi, obesi o diabetici. Infatti, appare intuitivo e fisiopatologicamente plausibile che un iperteso di grado 1, senza danno d’organo, ben controllato dalla terapia, non possa avere lo stesso rischio di sviluppare un’infezione severa rispetto ad un iperteso di grado 3, con compromissione d’organo e poco controllato dalla terapia. La prevalenza di ipertensione arteriosa è stata riportata in oltre il 20% dei pazienti affetti da COVID-1948 e fino al 63% dei pazienti ricoverati in terapia intensiva49. Quando l’effetto dell’ipertensione è stato corretto anche per l’età e per gli altri fattori di rischio cardiovascolare, in uno studio cinese di 2877 pazienti ospedalizzati la mortalità è stata del 4% vs 1.1% negli ipertesi vs normotesi, ma gli ipertesi ben controllati avevano una mortalità del 3.2% rispetto al 7.9% di quelli non trattati o poco controllati49.

Il diabete mellito è stato riportato nel 15% dei pazienti affetti da COVID-19 in uno studio di oltre 30 000 pazienti negli Stati Uniti37, e fino al 36% in altre osservazioni di coorte (ACC). In studi di metanalisi la presenza di diabete aumenta il rischio di mortalità da 2.5 a 3.5 volte anche dopo aggiustamento per età ed altri fattori confondenti50. Tuttavia, anche in questo caso la presenza di emoglobina glicata >10% aumenta il rischio di mortalità di 2.2 volte rispetto a soggetti diabetici con emoglobina glicata tra 6.5% e 7%51. Il diabete, quindi, rappresenta un fattore prognostico avverso soprattutto in presenza di terapia insulinica, mancato controllo metabolico ed evidenza di complicanze micro- e macrovascolari.

Infine, l’associazione tra rischio di decorso severo ed obesità è stata osservata soprattutto nella popolazione degli Stati Uniti dove la prevalenza di obesità riguarda oltre il 50% della popolazione adulta. In studi nell’area metropolitana di New York la prevalenza di obesità si è osservata nel 46% dei pazienti ricoverati in terapia intensiva, ed è risultata associata ad un aumento significativo del rischio di intubazione52. L’associazione con l’obesità, corretta per altri fattori di rischio, mostra una curva di tipo J, con un aumento del rischio per valori di BMI <18 kg/m2 e per valori di obesità severa con BMI >40 kg/m2, dove spesso si associano comorbilità rilevanti quali ipertensione, disturbi del sonno o ipertensione polmonare23.

Il peso delle comorbilità cardiometaboliche in termini di percentuale attribuibile di ricoveri per COVID-19 è stato analizzato in uno studio proveniente da una popolazione di pazienti americani ospedalizzati per COVID-1953. In questa analisi, relativa ad oltre 900 000 ricoveri per COVID-19 negli Stati Uniti fino a novembre del 2020, il 20.5% dei ricoveri sono risultati imputabili al diabete, il 30% all’obesità, il 26.2% all’ipertensione e l’11.7% allo scompenso cardiaco inteso come condizione di rischio predisponente ad una maggiore severità dell’infezione. In aggregato, l’insieme di queste quattro condizioni è risultato responsabile del 63.5% delle ospedalizzazioni, o del 58.7% considerando ipertensione, obesità e diabete mellito, con un peso crescente dell’impatto di ciascuna comorbilità al crescere dell’età, tranne che per l’obesità. Ad esempio, nella fascia di età compresa tra 50 e 64 anni, il 64.5% delle ospedalizzazioni sarebbe attribuibile alle quattro condizioni, arrivando al 73.9% per la fascia di età dai 65 anni in poi.

Sebbene manchino dati prospettici che abbiano valutato se il miglior controllo dei fattori di rischio cardiometabolici risulti in un risparmio di ospedalizzazioni nei pazienti che ne sono portatori, i risultati di questa analisi dovrebbero essere fortemente informativi, anche nel nostro Paese, per definire politiche di accesso prioritario alla vaccinazione che tengano in considerazione il peso delle patologie cardiometaboliche, soprattutto se non controllate, in aggiunta o in alternativa al criterio anagrafico.

Aritmie e COVID-19

Il rischio di infezione da COVID-19 per i pazienti con aritmie cardiache preesistenti non è stato ben definito. Tuttavia, i pazienti con disturbi del ritmo cardiaco non controllati in maniera efficace possono essere maggiormente a rischio se infettati da SARS-CoV-2. I pazienti con storm aritmico possono essere considerati plausibilmente a rischio elevato.

È interessante notare che un’associazione tra FA ed elevati livelli di ACE2 ha portato a ipotizzare che i pazienti con FA nota possano avere un rischio più elevato di morbilità e mortalità associata a COVID-19. Alcune categorie di soggetti con FA hanno un rischio più elevato di morbilità e mortalità per recidiva di aritmie, probabilmente innescate da COVID-19. Ad esempio, i pazienti con una storia nota di cardiomiopatia indotta da tachicardia (tachimiopatia) o esacerbazione dell’insufficienza cardiaca diastolica correlata a FA devono essere considerati a rischio intermedio. I dati riguardanti altre tachicardie sopraventricolari sono meno chiari. In particolare, nonostante le note complicanze trombotiche del COVID-19, la terapia anticoagulante prima del ricovero, comunemente usata per prevenire l’ictus nei pazienti con FA non sembra avere un impatto sulla mortalità nei pazienti ospedalizzati54.

L’effetto della malattia correlata a COVID-19 su pazienti con aritmie ventricolari preesistenti non è stato analizzato in grandi casistiche fino ad oggi. I marker che potrebbero ragionevolmente conferire un aumento del rischio includono una storia di terapie appropriate da parte del defibrillatore impiantato dovute a tachicardia/fibrillazione ventricolare o la necessità di trattamento di lunga durata con farmaci antiaritmici per ottenere la soppressione clinica delle tachicardie ventricolari recidivanti.

Deve infine essere valutata la necessità di dare priorità a pazienti precedentemente sottoposti ad impianto di defibrillatore in prevenzione secondaria per arresto cardiaco, ed a pazienti con storia di multiple ospedalizzazioni per scompenso cardiaco poi risoltesi con impianto di dispositivo per resincronizzazione cardiaca.

Arteriopatia periferica e COVID-19

L’arteriopatia periferica severa e l’ischemia acuta dell’arto richiedono nella maggior parte dei casi un trattamento rapido e tempestivo. L’introduzione del lockdown in Italia il 9 marzo 2020, ha comportato la riduzione delle attività ambulatoriali ed ha impedito un trattamento precoce dei pazienti con ischemia critica degli arti. Inoltre, la paura del contagio ha portato a una sottostima dei sintomi ed ha ritardato l’accesso alle cure attraverso il pronto soccorso.

Numerosi sono i lavori dove i pazienti sono giunti all’osservazione dei sanitari, con gravi ritardi, affetti da ischemia acuta dell’arto; purtroppo, nella maggior parte dei casi si è dovuto provvedere ad intervento di amputazione. È stato documentato infatti che il numero di amputazioni eseguite nel mese di marzo 2020 è stato significativamente maggiore del numero eseguito nello stesso periodo del 2019. È quindi necessario identificare percorsi che consentano a questi pazienti di avere un rapido accesso al trattamento con marcati miglioramenti nei risultati55.

La malattia COVID-19 si è visto essere associata a trombosi arteriosa degli arti inferiori caratterizzata da una maggiore presenza di coaguli e da una prognosi peggiore56. Uno studio recente ha documentato infatti come l’incidenza dell’ischemia acuta dell’arto sia aumentata in modo significativo durante la pandemia COVID-19 e di come il successo della rivascolarizzazione sia stato inferiore al previsto, probabilmente dovuto allo stato di ipercoagulabilità correlato al virus. L’uso prolungato di eparina sistemica potrebbe migliorare l’efficacia del trattamento chirurgico, il salvataggio degli arti e migliorare quindi gli outcome procedurali57.

I pazienti affetti da arteriopatia periferica e da patologie a carico del sistema nervoso presentano nella maggior parte dei casi numerose comorbilità come cardiopatia ischemica, patologia cerebro-vascolare e diabete mellito, tali da classificare questa popolazione come “fragile” e, nonostante non vi siano ancora dati epidemiologici a riguardo, una prevenzione dell’infezione mediante una vaccinazione precoce comporterebbe sicuramente dei grandi vantaggi.

Malattie di genere e COVID-19

Il sesso ed il genere, l’uno riferito alle caratteristiche biologiche, l’altro a quelle socio-culturali dell’individuo, sono importanti fattori di risposta alle malattie non trasmissibili, in primis quella cardiovascolare e trasmissibili, come il COVID-19.

La malattia cardiovascolare (MCV) rappresenta la principale causa di morte nella popolazione femminile in Italia e la sua incidenza è ampiamente superiore a qualsiasi altra causa di morte. In particolare, la MCV, insieme all’osteoporosi, rappresenta la principale patologia nelle donne in post-menopausa. La prevalenza di MCV nelle donne dopo i 75 anni supera quella riportata per gli uomini. Inoltre, la mortalità a breve-medio termine dopo infarto miocardico acuto è maggiore nelle donne rispetto agli uomini.

La caratterizzazione cardiovascolare nelle donne è più complessa perché la fisiopatologia, i percorsi diagnostici e gli approcci terapeutici alla MCV sono stati studiati in trial basati prevalentemente su popolazioni maschili e risultano spesso inappropriati quando applicati a pazienti di sesso femminile. A tutt’oggi, la percezione del rischio di sviluppo di MCV tra le donne permane bassa, perfino nella classe medica, e si traduce in una sottostima del rischio, con conseguenze cliniche, sociali ed economiche sfavorevoli.

Per quanto riguarda le malattie infettive virali, le donne hanno una maggiore suscettibilità rispetto agli uomini, ma negli uomini si osserva un outcome peggiore. Tale differenza è specialmente legata al sesso e alla risposta immunitaria, sia innata che acquisita, più efficace nelle donne: gli effetti degli ormoni sessuali sono opposti, immunostimolanti gli estrogeni, immunosoppressivi gli androgeni; inoltre fattori genetici ed epigenetici legati all’arricchimento sul cromosoma X di geni e di regolatori dell’espressione genica che codificano fattori della risposta immunitaria alle infezioni favoriscono la donna.

La percentuale di contagi da COVID-19 nella prima fase di diffusione in Oriente non ha mostrato differenze tra uomini e donne (Cina), ovvero ha segnalato una maggiore suscettibilità femminile all’infezione (Corea). In Italia, dai dati dell’ISS del 26 febbraio 2021 emerge che la percentuale di casi confermati positivi è apparsa comparabile nei due sessi nelle fasce di età 0-29 anni, superiore negli uomini tra i 30 e i 79 anni, di nuovo comparabile fino agli 89 anni e nettamente prevalente nelle donne >90 anni. Le differenze di genere nella distribuzione dei casi COVID-19 possono essere spiegate sulla base delle predette peculiarità biologiche, nonché con la diversa composizione demografica nelle diverse fasce di età.

Da quanto si è detto si comprende come dopo la menopausa e a breve distanza da essa (3-5 anni) la perdita della tutela ormonale produca la rapida comparsa di fattori di rischio, o la maggiore espressività di quelli preesistenti. Inoltre, nella donna di età >55 anni la gran parte dei fattori di rischio e, in ispecie, la loro associazione, si fa più aggressiva che nella controparte maschile: il diabete raddoppia il rischio di malattia coronarica nell’uomo, ma lo quintuplica nella donna; l’obesità, che di frequente insorge dopo la menopausa, riduce l’aspettativa di vita del 20% in più nella donna che nel coetaneo maschio; la sindrome metabolica ha un picco di insorgenza nelle donne >70 anni.

La donna post-fertile portatrice di alto rischio cardiovascolare o sofferente di una patologia cardiovascolare clinica, rappresenta il prototipo di una popolazione fragile innanzi al rischio di una pandemia come quella in corso: da una parte vi è il quadro di fondo dell’accresciuto rischio cardiometabolico, dall’altra, la perdita della protezione immunologica in precedenza svolta dagli ormoni ovarici.

In epoca pre-pandemica la sottovalutazione del rischio cardiovascolare nel sesso femminile ha rappresentato un grave pregiudizio per la salute della donna, richiamando ad una nuova consapevolezza delle differenze tra i sessi finalizzata a strategie preventive e terapeutiche su misura. L’imminenza della pandemia deve accelerare la consapevolezza dell’incremento del rischio cardiovascolare nella donna oltre la sesta decade di vita e garantire la stessa urgenza di presidi terapeutici e vaccinali prevedibili per la controparte maschile. La comprensione di meccanismi sesso/genere-correlati in relazione alla pandemia sono un aspetto fondamentale per garantire interventi sanitari globali equi ed efficaci per ogni individuo. È importante raccogliere sistematicamente i dati disaggregati per sesso ed età relativi a COVID-19, analizzare in un’ottica di genere-specificità la sicurezza e l’efficacia dei farmaci candidati o già utilizzati e dei vaccini, allestire studi, anche retrospettivi, per valutare il ruolo della terapia ormonale sostitutiva in donne colpite da COVID-19.

CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE

La malattia COVID-19 ha avuto in tutto il mondo un impatto devastante sul sistema socio-sanitario, con 122 milioni di casi e 2.69 milioni di decessi. Da quando, l’11 gennaio 2020, è stata pubblicata la sequenza genetica del virus SARS-CoV-2, scienziati, industrie e altre organizzazioni in tutto il mondo hanno collaborato per sviluppare il prima possibile vaccini sicuri ed efficaci contro il COVID-19.

Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, al 22 gennaio 2021, erano 237 i vaccini candidati in corso di sviluppo. Ad oggi nell’Unione Europea sono stati approvati quattro vaccini: Pfizer-BioNTech, Moderna, ChAdOx1 (AstraZeneca/Oxford), Janssen (Johnson & Johnson) ed altri tre sono in fase di valutazione: CVnCoV, NVX-CoV2373 e Sputnik V (Gam-COVID-Vac). La scelta di un programma di assegnazione dei vaccini è cruciale nel promuovere al massimo il beneficio del trattamento.

Gli aspetti analizzati consentono la stratificazione del rischio per stabilire la gerarchia di accesso alle vaccinazioni anti-SARS-CoV-2 stabilendo una priorità sulla base delle patologie cardiovascolari esistenti (Figura 2).

Sicuramente i pazienti in età avanzata affetti dalle diverse forme severe di cardiopatia presenteranno con maggiore probabilità delle comorbilità ed uno stato di fragilità tale da renderli una categoria particolarmente vulnerabile; è opportuno però ricordare l’esistenza anche di pazienti in fasce di età giovane-adulta che possono presentare forme severe di MCV di gravità clinica tale da condizionare frequenti ospedalizzazioni o visite urgenti per peggioramento clinico-emodinamico, nonostante una terapia ottimizzata. Pertanto, nei pazienti affetti da severe patologie cardiovascolari l’accesso al programma vaccinale dovrebbe essere indipendente dall’età. A causa di alcuni decessi sospetti, in data 15 marzo 2021, l’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA) ha vietato l’utilizzo del vaccino AstraZeneca COVID-19 su tutto il territorio nazionale. Questa misura è stata adottata fino al 19 marzo, quando la commissione PRAC (Pharmacovigilance Risk Assessment Committee) della European Medicines Agency (EMA), dopo i dovuti controlli, ne ha riammesso l’utilizzo. Questo ha comportato un ulteriore ritardo sul piano di vaccinazione nazionale e pertanto rende ancor di più necessario un piano strategico di priorità.

RIASSUNTO

La pandemia COVID-19 in poco più di un anno ha causato 2.69 milioni di decessi e 122 milioni di contagi. Le misure di isolamento sociale e distanziamento hanno rappresentato per mesi l’unico strumento di prevenzione disponibile. La ricerca scientifica in uno sforzo senza precedenti è riuscita a sviluppare nell’arco di pochi mesi dei vaccini sicuri ed efficaci contro il COVID-19. Ad oggi nell’Unione Europea sono stati approvati quattro vaccini: Pfizer-BioNTech, Moderna, ChAdOx1 (Astra Zeneca/Oxford), Janssen (Johnson & Johnson) ed altri tre sono in fase di valutazione.

L’attuazione di un programma di priorità vaccinale è quindi cruciale nel conseguimento del massimo beneficio del trattamento. Le malattie cardiovascolari sono tra le comorbilità più frequentemente associate alle infezioni severe da COVID-19, determinandone spesso una prognosi sfavorevole. Gli anziani affetti da malattie cardiovascolari sono quindi da considerare una categoria particolarmente vulnerabile, ma l’età non può essere l’unico fattore discriminante, in quanto anche pazienti di età giovane-adulta, che presentino gravi forme di cardiopatia, dovrebbero avere un accesso prioritario al programma vaccinale. Tale priorità si rende necessaria dal punto vista sanitario ed etico perché il numero limitato di vaccini non permetterà la vaccinazione di tutta la popolazione italiana in tempi brevi.

Lo scopo di questo documento è quindi quello di stabilire una priorità nel calendario vaccinale tra i soggetti affetti dalle diverse forme di cardiopatia.

Parole chiave. COVID-19; Malattie cardiovascolari; SARS-CoV-2; Vaccini.

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