Gestione delle perforazioni coronariche
durante angioplastica coronarica

Giulio Piedimonte, Guido D’Agosta, Giacomo Gravina, Giuseppe Venuti, Carmelo Castellana,
Corrado Tamburino, Alessio La Manna

U.O. Cardiologia - Laboratorio di Emodinamica, Dipartimento Cardio-Toraco-Vascolare e Trapianto d’Organi, CAST,
P.O. G. Rodolico, A.O.U. Policlinico-Vittorio Emanuele, Catania

Coronary perforation represents a terrible complication of percutaneous coronary intervention (PCI) which, if not promptly recognized and treated, can lead to catastrophic consequences for the patient. Hence, acquisition of the basic techniques for the treatment of coronary perforations is critical for the interventional cardiologist in order to safely perform PCIs. Although the incidence of coronary perforations remains low during PCI, it is possible to recognize some subgroups of patients and some types of coronary lesions, such as chronic coronary total occlusions, that are associated with increased risk. The treatments currently available depend on the type and site of coronary perforation, therefore timely recognition is of paramount importance in order to be able to quickly establish the most appropriate treatment.

Key words. Coronary angioplasty; Coronary perforation; Treatment.

INTRODUZIONE

La perforazione coronarica rappresenta una complicanza delle procedure di angioplastica coronarica (percutaneous coronary intervention, PCI) che si presenta con un’incidenza stimata dell’1%1. Tuttavia, il rischio di perforazione coronarica varia a seconda delle caratteristiche cliniche del paziente e anatomiche della lesione, pertanto è possibile riconoscere alcuni sottogruppi di pazienti a maggior rischio di perforazione durante una PCI. Ad esempio, l’incidenza delle perforazioni coronariche nelle PCI di lesioni cronicamente occluse (chronic total occlusion, CTO) è stimata intorno al 2-4%2 a causa della maggiore complessità anatomica di tali lesioni e dell’utilizzo di tecniche di disostruzione che di per sé aumentano il rischio di danneggiamento della parete vascolare.

Una perforazione coronarica può verificarsi durante le diverse fasi dell’atto interventistico ed è tipicamente causata dalla fuoriuscita della guida coronarica dalla struttura del vaso, dalla dilatazione aggressiva con palloni nella fase pre- e post-stenting, dall’impianto dello stent (soprattutto se sovradimensionato) e dall’utilizzo di dispositivi per il trattamento delle lesioni calcifiche (es. Rotablator), e può portare rapidamente ad una situazione di instabilità emodinamica e morte per tamponamento cardiaco. Di conseguenza, la diagnosi tempestiva è essenziale per poter instaurare rapidamente un trattamento adeguato.

Il gonfiaggio prolungato con palloni, l’uso di stent ricoperti, l’embolizzazione con rilascio di spirali, la pericardiocentesi e la riparazione chirurgica sono i trattamenti attualmente disponibili.

Considerate le conseguenze emodinamiche sopracitate, i pazienti con perforazione coronarica vanno incontro ad una prognosi peggiore a breve e lungo termine rispetto ai pazienti senza perforazione coronarica dopo una PCI3,4. Per questo motivo, per quanto possibile, è opportuno eseguire tutti gli accorgimenti che ne permettono la prevenzione durante la PCI.

Lo scopo di questo articolo è quello di descrivere gli aspetti epidemiologici, clinici e gestionali delle perforazioni coronariche.

EPIDEMIOLOGIA

Nel 1978 Grüntzing realizzò la prima PCI a livello mondiale aprendo di fatto l’era della cardiologia interventistica. Nonostante l’entusiasmo iniziale e la diffusione del trattamento in tutto il mondo, fin da subito vennero riportate un certo numero di complicanze come la dissezione coronarica, lo spasmo coronarico, l’occlusione coronarica sia acuta che a distanza dal trattamento, l’infarto miocardico periprocedurale, l’arresto cardiaco, la bradicardia severa, episodi di aritmie ventricolari e l’emorragia dal sito di accesso vascolare.

Tuttavia la prima documentazione di una perforazione coronarica ufficialmente riportata risale al 1982 quando Kimbiris et al.5 riportarono una “inusuale complicazione” durante un tentativo di PCI sull’arteria discendente anteriore di una donna di 68 anni, attribuendo la causa della perforazione coronarica all’eccessiva angolazione del vaso dopo la sua origine dal tronco comune che, rendendo difficoltoso l’avanzamento del pallone per dilatazione, necessitò di numerose e prolungate manipolazioni nel tentativo di superare l’angolazione del vaso.

I primi dati epidemiologici circa l’incidenza delle perforazioni coronariche risalgono ad uno studio di registro pubblicato nel 19946, dove tra il 1990 e 1991 vennero coinvolti circa 13 000 pazienti sottoposti a PCI o ad altre procedure (es. aterectomia direzionale o rotazionale). Dall’analisi emerse che l’incidenza complessiva delle perforazioni coronariche era compresa tra l’1% e il 2% e che erano più comuni nei pazienti anziani e nelle donne, nell’arteria discendente anteriore, nelle lesioni più complesse (lunghe, tortuose e calcifiche) e dopo trattamento con aterectomia direzionale o rotazionale.

In uno studio pubblicato nel 20044 che ha analizzato (tra il 1993 e il 2001) 5278 pazienti per un totale di 10 014 lesioni trattate, l’incidenza delle perforazioni coronariche era complessivamente dell’1.47%, confermando un rischio maggiore in pazienti anziani, di sesso femminile, con lesioni complesse e sottoposti a trattamenti con aterectomia.

Seguendo un trend temporale, in uno studio1 che ha coinvolto 39 115 pazienti tra il 2005 e il 2016, l’incidenza complessiva delle perforazioni coronariche era dello 0.37%, con un trend in crescita dal 2005 (0.31%) al 2016 (0.45%), riflettendo parallelamente l’incremento del numero delle PCI complesse (dal 14% nel 2005 al 21% nel 2016).

Nella Tabella 1 sono riportati i principali studi epidemiologici relativi all’incidenza delle perforazioni coronariche dal 1994 al 20171,4,6-15.

In conclusione, analizzando l’incidenza di tale complicanza dagli anni ’90 ad oggi, nonostante il rischio sia maggiore in specifici sottogruppi di pazienti e di lesioni, le perforazioni coronariche durante una PCI rimangono un evento poco frequente che si verifica nello 0.5-1% dei casi, con un trend in aumento correlato direttamente con l’incremento del numero totale delle PCI, specialmente in quelle complesse.




CLASSIFICAZIONE, CLINICA E DIAGNOSI

La classificazione delle perforazioni coronariche fu definita da Ellis et al.6 sulla base delle caratteristiche angiografiche in 5 tipi (Tabella 2). L’importanza di tale classificazione, ancora oggi riconosciuta, è che essa correla con la prognosi e pertanto permette di definire fin da subito il tipo di trattamento da eseguire.

In linea generale le perforazioni coronariche variano da un minimo stravaso intramurale fino alla rottura del vaso con emorragia massiva nello spazio pericardico determinante tamponamento cardiaco. La perforazione di tipo I secondo Ellis è angiograficamente identica a quella NHBLI (National Heart, Lung, and Blood Institute) tipo C (dissezione)16, rinforzando la nozione di una continuità tra la dissezione e la perforazione coronarica. Il tipo II è la più comune forma di perforazione coronarica e generalmente, se trattata con dilatazioni prolungate con palloni, è associata ad una bassa incidenza di eventi avversi. La perforazione coronarica di tipo III è associata ad un rapido sviluppo di tamponamento cardiaco nella maggior parte dei casi e spesso necessita di pericardiocentesi e trattamento intravascolare del sito di perforazione mediante stent ricoperti o intervento chirurgico urgente. Il tipo III CS (cavity spilling) o IV è associata a conseguenze meno catastrofiche del tipo III, poiché si crea un tramite che drena il sanguinamento derivante dalla perforazione del vaso direttamente in una camera cardiaca, e per tale motivo spesso richiede un trattamento conservativo. La perforazione di tipo V corrisponde alla perforazione distale del vaso causata tipicamente dalla fuoriuscita traumatica di una guida coronarica e richiede un’attenta visualizzazione di tutta la periferia coronarica per poter essere identificata. Il suo trattamento solitamente prevede l’embolizzazione con spirali intravascolari (coil). In alcuni casi particolari come durante le PCI di occlusioni croniche, a causa della presenza di piccoli rami collaterali che possono svilupparsi alla periferia coronarica, può associarsi a persistenza dell’effusione nonostante una corretta embolizzazione distale e di conseguenza richiede anche il trattamento del ramo collaterale colpevole.




La diagnosi di perforazione coronarica è su base angiografica. Il tipo III è quella più facilmente riconoscibile in quanto si basa sulla visualizzazione dello stravaso massivo di mezzo di contrasto che richiede un trattamento immediato. Clinicamente questo tipo di perforazione coronarica si manifesta con i segni e i sintomi del tamponamento cardiaco che può essere diagnosticato direttamente in sala di Emodinamica mediante un ecocardiogramma transtoracico. In alcuni casi la semplice scopia può rilevare un’immobilità dei bordi cardiaci che, in presenza di perforazione coronarica di tipo III, può essere dirimente per la diagnosi di tamponamento cardiaco. Tuttavia, sebbene una perforazione di tipo III si associ a tamponamento cardiaco evidente fin dalle prime fasi della perforazione, in alcuni casi può essere angiograficamente poco evidente e manifestarsi clinicamente a 8-24 h dalla procedura. In questi casi la diagnosi di perforazione coronarica rientra nella diagnosi differenziale di ipotensione post-PCI e richiede quindi una corretta valutazione clinica e strumentale. Poiché in genere tali forme di perforazione coinvolgono piccoli vasi e sono suscettibili di trattamento percutaneo, la coronarografia è necessaria per diagnosticare la causa del tamponamento cardiaco.

La perforazione di un bypass o di un vaso coronarico in un paziente già sottoposto ad intervento cardiochirurgico risulta più frequentemente in un’emorragia toracica o mediastinica, mentre il tamponamento cardiaco è inusuale data la pericardiectomia. Ciò non deve portare però ad una sottovalutazione del problema poiché sono stati descritti dei casi di ematomi saccati che determinano compressione di una camera cardiaca o di un vaso epicardico17.

FATTORI PREDISPONENTI

Nella prima descrizione di perforazione coronarica documentata nel 1982, la causa veniva attribuita all’eccessiva angolazione dell’arteria discendente anteriore. In effetti in uno studio di Stankovic et al.4 l’angolazione del vaso >45° rispetto all’asse di origine correlava significativamente con il rischio di perforazione coronarica (11% vs 4%; p=0.024).

Oltre all’eccessiva angolazione, dall’analisi dei sottogruppi di diversi studi di registro emerge che il sesso femminile e l’età avanzata si associano ad un maggior rischio di perforazione coronarica. Anche i più comuni fattori di rischio cardiovascolare come l’ipertensione arteriosa, la dislipidemia, il diabete mellito, l’insufficienza renale cronica aumentano il rischio di perforazione, in quanto possono singolarmente o in combinazione incidere sulla tortuosità del vaso, il grado di calcificazione coronarica, la lunghezza e la severità della stenosi coronarica. Un discorso simile può essere considerato per la storia di infarto miocardico e di rivascolarizzazione chirurgica pregressa, poiché si associano entrambi ad un quadro coronarico più complesso che di per sé può predisporre alla perforazione coronarica1.

Un contesto particolare è quello delle CTO, dove le perforazioni coronariche rappresentano ancora, nonostante un notevole avanzamento nelle tecniche e nell’esperienza degli operatori, un problema relativamente frequente, in quanto si tratta di procedure complesse che prevedono l’uso di guide coronariche più “pesanti” e “rigide”, microcateteri ed altri dispositivi, soprattutto nelle procedure retrograde dove il rischio di perforazione di rami collaterali rimane ancora relativamente alto18.

Nella Tabella 3 sono riportati i principali fattori predisponenti le perforazioni coronariche.




CAUSE DELLE PERFORAZIONI CORONARICHE

Nello studio di Stankovic et al.4 venivano riportati 84 casi di perforazioni coronariche in oltre 5600 pazienti sottoposti a PCI. Identificando le cause specifiche delle perforazioni, 46 casi si sono verificati durante la procedura di PCI (22 casi nella fase di pre-dilatazione, 20 casi nella fase di post-dilatazione e 4 casi durante la fase di impianto dello stent); 8 casi si sono verificati durante l’aterectomia direzionale e 3 casi durante l’aterectomia rotazionale; 2 casi durante l’utilizzo del cutting balloon nella preparazione di lesioni fibro-calcifiche, ed infine 22 casi correlati alla perforazione da guida coronarica. Dall’analisi del rapporto tra numero di lesioni complicate da perforazione e numero totale di lesioni trattate con il dispositivo responsabile della perforazione, l’incidenza di perforazione coronarica dispositivo-correlata era dell’1.8% per l’aterectomia direzionale, dello 0.56% per l’aterectomia rotazionale, dello 0.48% per le dilatazioni con palloni, dello 0.31% per il cutting balloon e dello 0.2% per le guide coronariche.

Nello studio di Guttman et al.1 su 149 perforazioni coronariche in oltre 30 000 pazienti sottoposti a PCI, 41 casi (27%) erano correlati alle fasi di pre- e post-dilatazione, 51 casi (34%) alla fase di impianto dello stent e 57 casi (38%) a perforazione da guida coronarica.

In conclusione, le perforazioni coronariche possono verificarsi in qualsiasi fase di una PCI e il maggior rischio sembra essere correlato alle fasi di pre- e post-dilatazione e di impianto dello stent. La singola procedura che si associa al maggior rischio di perforazione coronarica è correlata all’utilizzo di dispositivi usati nel trattamento delle lesioni calcifiche come l’aterectomia; tuttavia dato l’uso non routinario nella pratica clinica di questi dispositivi, globalmente il numero complessivo di perforazioni coronariche associate a tali procedure è basso e pertanto le dilatazioni con palloni e la fuoriuscita della guida dal vaso rappresentano la principale causa di perforazione coronarica nella pratica clinica.

IMPATTO PROGNOSTICO DELLE PERFORAZIONI CORONARICHE

Diversi studi hanno confrontato la prognosi di pazienti con e senza perforazione coronarica dopo una PCI, convergendo tutti nella documentazione di un peggioramento prognostico nei pazienti con PCI complicata da una perforazione coronarica.

Nello studio di Stankovic et al.4 sono stati confrontati 84 pazienti con perforazione coronarica con 5644 pazienti senza perforazione, ed è emerso che l’incidenza di morte, infarto miocardico, rivascolarizzazione del vaso target mediante re-PCI o bypass aortocoronarico era maggiore nei pazienti con perforazione coronarica sia nella fase intraospedaliera che in quella postospedaliera. Risultati simili sono stati ottenuti in uno studio del 2017 dove 149 pazienti con perforazione coronarica dopo PCI hanno mostrato un incremento della mortalità per tutte le cause dopo un follow-up di 4 anni rispetto a 39 000 pazienti senza perforazione coronarica1.

Un limite di questi studi che potrebbe aver influenzato la prognosi sia a breve che a lungo termine è il fatto che le perforazioni coronariche non erano conseguenti soltanto a PCI “tradizionali”, ma in un buon numero di casi erano conseguenti all’utilizzo di dispositivi di aterectomia che non sono di uso routinario nella pratica clinica.

U n dato interessante che emerge da uno studio del 2009 è inoltre quello della correlazione della prognosi con il tipo di perforazione coronarica; infatti dallo studio emerge che l’incidenza di morte, tamponamento cardiaco e rivascolarizzazione in urgenza mediante re-PCI o bypass aortocoronarico è nettamente maggiore nel sottogruppo con perforazione di grado III secondo la classificazione di Ellis, e che le perforazioni di grado I e II si associano ad una prognosi buona, quasi sovrapponibile a quella dei pazienti senza perforazione coronarica19. Questo dato in realtà non è recente, in quanto anche nello studio di Ellis et al.6 del 1994 si documentava come tutti i casi di decesso e la maggior parte degli infarti miocardico con o senza sopraslivellamento del tratto ST in ospedale si verificavano soprattutto nel sottogruppo con perforazione di grado III.

In conclusione, sebbene le perforazioni coronariche si associano complessivamente ad una prognosi peggiore, è il tipo di perforazione coronarica che condiziona i principali outcome sia a breve che a lungo termine, con le perforazioni di grado III che si associano a maggiore incidenza di eventi cardiovascolari maggiori e a maggiore necessità di interventi di rivascolarizzazione in urgenza del vaso target o di drenaggio per tamponamento cardiaco.

OCCLUSIONI CRONICHE TOTALI

Le CTO rappresentano di per sé un fattore predisponente la perforazione, in quanto si tratta delle lesioni coronariche più complesse che richiedono trattamento con particolari tecniche di disostruzione, con guide e dispositivi dedicati che aumentano inevitabilmente il rischio, non soltanto sul vaso target ma anche sui rami collaterali epicardici o settali utilizzati nelle procedure retrograde.

Sebbene in mani esperte la perforazione coronarica durante una CTO-PCI risulta essere infrequente, l’incidenza di tale complicanza è maggiore rispetto alle PCI di lesioni non occlusive. In una metanalisi coinvolgente 65 studi pubblicati tra il 2000 e il 2011 per un totale di 18 061 pazienti e 18 941 lesioni, l’incidenza complessiva delle perforazioni coronariche era del 2.9%18. In un’altra metanalisi comprendente 26 studi pubblicati tra il 2006 e il 2013 con 3482 pazienti e 3493 lesioni, l’incidenza delle perforazioni coronariche era del 4.3%20. In uno studio osservazionale è emerso che in 2049 pazienti trattati, l’incidenza delle perforazioni coronariche era del 4.1% con una maggiore incidenza di perforazioni tipo Ellis 3 (52%)21.

Tra i fattori predisponenti, oltre a quelli già precedentemente elencati, emergono anche fattori procedurali inerenti le procedure di CTO-PCI, come l’utilizzo di particolari tecniche di ricanalizzazione come l’ADR (antegrade dissection and re-entry) e la reverse-CART (controlled antegrade and retrograde tracking), ed è probabile che siano proprio tali fattori procedurali, associati all’utilizzo di guide ad elevata grammatura, ad essere responsabili di una maggiore incidenza di perforazioni coronariche nelle CTO-PCI.

Le procedure retrograde sono quelle con il maggior rischio, in quanto la navigazione di collaterali epicardici o settali può favorire l’insorgenza di una perforazione coronarica e questo potrebbe giustificarne la maggiore incidenza, come riportato in un recente studio dove l’incidenza di tale complicanza era del 15.5% durante le PCI-CTO retrograde22.

In un recente studio di Azzalini et al.2 condotto su 1811 pazienti sottoposti a procedure di disostruzione coronarica, 99 (5.5%) hanno avuto come complicanza una perforazione coronarica durante la procedura (Ellis I 11%, II 46%, III 28%, III con “spilling cavity” 14%).

La prevalenza di “blunt stump”, di calcificazioni moderato-severe, un angolo del vaso affetto da CTO >45° e una lunghezza >20 mm era associata più frequentemente a lesioni complicate da perforazione coronarica, di conseguenza un Japanese CTO (J-CTO) score >2 era più frequente nel gruppo dei pazienti con perforazione coronarica (84% vs 62%; p=0.001)23. Le tecniche che maggiormente si associavano a perforazione erano le tecniche retrograde (49% vs 30%; p=0.001) e di dissezione e rientro anterograde (17% vs 8%; p=0.001). La causa più frequentemente responsabile delle perforazioni coronariche era la fuoriuscita della guida dal vaso (32%), seguita dall’avanzamento dei microcateteri (29%) e dalle dilatazioni con palloni nella fase di preparazione della lesione allo stenting (22%). Rara era la perforazione in seguito all’impianto dello stent (9%).

Per quanto concerne gli outcome intraospedalieri, l’incidenza di infarto periprocedurale, sanguinamenti maggiori e la mortalità per tutte le cause era più frequente nel gruppo dei pazienti con perforazione coronarica (13.1% vs 3.8%, p=0.001; 14.1% vs 1.2%, p=0.001; 5.1% vs 0.3%, p=0.001, rispettivamente). Di conseguenza l’incidenza degli eventi cardiovascolari e cerebrovascolari maggiori era superiore nel gruppo dei pazienti con perforazione coronarica (35.9% vs 5.1%, p=0.001). A 30 giorni dalla CTO-PCI gli outcome rimanevano sfavorevoli nel gruppo con perforazione coronarica con incidenza di mortalità cardiovascolare e infarto del vaso target maggiore rispetto al gruppo senza perforazione coronarica (5.2% vs 0.35%, p=0.001; 4.2% vs 0.4%, p=0.001, rispettivamente).

In conclusione, le CTO rappresentano un particolare tipo di lesioni che aumentano il rischio di perforazione rispetto alle lesioni coronariche non occlusive (2.5-5% vs 0.5-1%), sebbene rimangano relativamente infrequenti considerando il trend in aumento di successo procedurale delle CTO-PCI influenzato dal miglioramento dei materiali e dalla maggiore esperienza degli operatori che si dedicano al trattamento di queste lesioni in centri dedicati.

Fattori che aumentano il rischio di perforazione nelle CTO-PCI rispetto alle angioplastiche di lesioni non occlusive sono rappresentati da:

– maggiore complessità anatomica della lesione (specialmente in quelle con J-CTO score >2);

– l’utilizzo di guide coronariche di alta grammatura e microcateteri dedicati;

– l’utilizzo di specifiche tecniche di disostruzione come le tecniche retrograde e anterograde con dissezione e rientro.

Rispetto alle angioplastiche di lesioni non occlusive dove le dilatazioni con pallone (nella fase pre- e post-stenting) rappresentano la principale causa di perforazione coronarica, nelle procedure di disostruzione di CTO sono la fuoriuscita della guida dal vaso e l’avanzamento del microcatetere ad essere le cause più frequenti di perforazione coronarica, a testimonianza di come le CTO-PCI aumentino il rischio di perforazione in quanto prevedono l’utilizzo di dispositivi e guide (usate nel contesto di tecniche complesse) normalmente non utilizzate nelle angioplastiche di lesioni non occlusive.

Come descritto precedentemente riguardo l’impatto di una perforazione durante il trattamento di lesioni non occlusive, anche le CTO-PCI complicate da perforazione coronarica sono gravate da un peggioramento della prognosi sia intraospedaliera che a breve e lungo termine. Questo dato è confermato anche da dati provenienti da ampi studi di registro come quello di Kinnaird et al.3, in cui tra i 26 801 pazienti analizzati, la mortalità a 12 mesi era maggiore del 60% nei pazienti con perforazione coronarica rispetto a quelli senza tale complicanza. Alcune possibili spiegazioni del peggioramento prognostico nei pazienti con perforazione coronarica durante una CTO-PCI possono essere correlate alla rivascolarizzazione incompleta per interruzione della procedura, insorgenza di concomitanti complicazioni (tamponamento cardiaco, infarto periprocedurale) e al maggiore rischio di trombosi e restenosi di stent ricoperti utilizzati per il trattamento della perforazione.

PREVENZIONE

Per prevenire una perforazione coronarica durante l’esecuzione di una PCI è necessario prestare massima attenzione a due aspetti principali, uno correlato al corretto posizionamento della guida coronarica e l’altro correlato alla morfologia della lesione e all’adeguata dimensione dei dispositivi da utilizzare24.

Una guida coronarica deve essere posizionata a valle di una stenosi coronarica conservando la “torque response” una volta ottenuta la distalità della lesione. Infatti la perdita della risposta alla rotazione e della mobilità della punta di una guida coronarica deve far sospettare una posizione della guida nello spazio subintimale e quindi è necessario rimuovere e riposizionare la guida.

In alcuni studi è stato dimostrato come un rapporto tra il diametro del pallone/diametro del vaso >1.2 e diametro del dispositivo intracoronarico (es. Rotablator)/diametro del vaso >0.8 sia associato ad un aumento significativo del rischio di perforazione coronarica7,25. Per questo motivo specialmente in lesioni complesse che già di per sé aumentano il rischio di perforazione (biforcazioni, CTO, lesioni calcifiche, lesioni angolate) sarebbe opportuno utilizzare palloni per dilatazione che garantiscano un rapporto di 1 con il diametro del vaso e dispositivi intracoronarici che mantengano un rapporto non superiore allo 0.6-0.8 con il diametro del vaso. A tal proposito, l’utilizzo di tecniche di imaging intravascolare quale l’ecografia intravascolare (IVUS) sono di particolare ausilio affinché venga garantito il corretto sizing dei dispositivi.

Anche il corretto trattamento delle lesioni calcifiche può prevenire una perforazione coronarica. Difatti le lesioni severamente calcifiche dovrebbero essere pretrattate al fine di garantire un’ottimale espansione dello stent. Pertanto dispositivi che garantiscono la modificazione della placca come il cutting o lo scoring balloon, l’aterectomia rotazionale od orbitale, e la promettente litoplastica intravascolare dovrebbero essere presi in considerazione nel pretrattamento di queste lesioni. Altrimenti, dilatazioni ad alte pressioni con i convenzionali palloni semi-complianti o non complianti potrebbero causare una perforazione del vaso secondo due meccanismi principali:

– in caso di placca calcifica eccentrica, l’espansione del pallone avverrebbe verso il lato “sano” del vaso che risulta essere più compliante, fino alla perforazione per eccessiva distensione della parete;

– In caso di placca calcifica concentrica, l’eccessiva dilatazione ad alte pressioni del pallone porterebbe ad un’improvvisa frattura incontrollata della placca calcifica e cedimento della parete vasale con rischio di perforazione associata.

Per quanto riguarda le CTO-PCI ci sono ulteriori accorgimenti che dovrebbero essere seguiti per minimizzare il rischio di perforazione coronarica26:

• avanzamento del microcatetere solo dopo la conferma che la guida sia nel vero lume (attraverso multiple proiezioni e iniezione controlaterale);

• utilizzare l’IVUS nella scelta della dimensione del pallone per dilatazione per evitare l’oversizing dello stesso legato al rimodellamento negativo del vaso che si sviluppa a valle del segmento occluso;

• utilizzare l’IVUS nelle procedure retrograde per scegliere il corretto sizing del pallone per dilatazione per favorire il rientro delle guide nel vero lume e verificarne il corretto posizionamento durante la reverse-CART;

• durante una procedura anterograda l’avanzamento incontrollato di una guida idrofilica o di elevata grammatura può aumentare il rischio di una perforazione coronarica. L’utilizzo di tecniche come il trapping permette di mantenere la posizione di una guida nel corpo di una CTO e contemporaneamente avanzare una seconda guida e scambiare il microcatetere in modo controllato;

• nel crossing dei rami collaterali, soprattutto se epicardici, evitare l’utilizzo di guide polimeriche e rastremate che aumentano il traumatismo parietale specie in caso di collaterali piccoli e tortuosi.

TRATTAMENTO

Il trattamento percutaneo delle perforazioni coronariche dipende dal tipo di perforazione che può essere distinta in tre tipi differenti: prossimale, distale e collaterale26. Indipendentemente dal tipo di perforazione, esiste un protocollo generale che deve essere rispettato in tutti i casi di perforazione coronarica. Il primo trattamento che deve essere immediatamente applicato è il gonfiaggio di un pallone dello stesso diametro del vaso perforato a 8-10 atm, in modo da arrestare temporaneamente l’emorragia. Contemporaneamente, è consigliabile somministrare liquidi per via endovenosa al fine di prevenire o trattare un’eventuale ipotensione, riservando la somministrazione di atropina soltanto nel caso di comparsa di bradicardia severa secondaria ad una reazione vagale. La pericardiocentesi è sempre necessaria in caso di instabilità emodinamica provocata dallo sviluppo di un tamponamento cardiaco. In questo contesto l’utilizzo dell’ecocardiogramma transtoracico è utile per valutare l’entità del versamento e l’efficacia della pericardiocentesi. Il trattamento chirurgico deve essere riservato solo dopo il fallimento di tutti i trattamenti percutanei disponibili. La “reverse coagulation” è un’opzione di bail-out in quanto l’antagonizzazione dell’eparina con solfato di protamina può causare la trombosi dei dispositivi presenti all’interno delle coronarie. Il protocollo di antagonizzazione dell’eparina prevede la somministrazione di solfato di protamina 1 mg ogni 100 UI di eparina fino ad un massimo di 5 mg/min.

Trattamento delle perforazioni prossimali di un vaso epicardico

Dopo aver gonfiato un pallone a monte del sito della perforazione per alcuni minuti per effettuare un’emostasi meccanica, se il sanguinamento persiste, il “gold standard” è l’inserimento di uno stent ricoperto (Figura 1). Ci sono due tecniche possibili per il posizionamento dello stent:

• attraverso singolo catetere guida, detta anche block and deliver technique, in cui nello stesso catetere guida vengono inserite due guide, una per la dilatazione del pallone da emostasi e l’altra per il posizionamento dello stent;

• attraverso due cateteri guida, detta anche ping-pong technique, uno per la dilatazione del pallone da emostasi e l’altro per il posizionamento dello stent ricoperto.

Entrambe queste tecniche hanno come obbiettivo quello di ridurre il tempo tra la dilatazione del pallone e il posizionamento dello stent, al fine di ridurre al minimo il sanguinamento che può intercorrere tra una fase e l’altra. La scelta della tecnica, oltre che dalla confidenza dell’operatore, dipende soprattutto dalla grandezza del catetere guida utilizzato per l’angioplastica e dalla compatibilità tra i dispositivi utilizzati e disponibili nei singoli laboratori di Emodinamica. Infatti la tecnica con singolo catetere può essere utilizzata solo se il lume del catetere guida è abbastanza grande da accogliere sia il pallone che lo stent e in genere questo è possibile per cateteri ≥7 Fr. Da alcuni anni sono disponibili anche stent ricoperti compatibili con cateteri guida 6 Fr nonostante la presenza del pallone da emostasi all’interno.

È buona norma essere a conoscenza del materiale presente nel proprio laboratorio di Emodinamica in modo da standardizzare il trattamento della complicanza ed evitare perdite di tempo prezioso in tale circostanza.







Trattamento delle perforazioni distali di un vaso epicardico

Come in tutte le perforazioni coronariche anche in quelle distali ad un vaso epicardico il primo passo è quello di gonfiare un pallone a monte del sito di perforazione per cercare di arrestare l’emorragia. Nel caso in cui lo stravaso non si arresti, l’embolizzazione e successivamente, come tecnica bail-out, il posizionamento di uno stent ricoperto rappresentano i passi successivi. L’embolizzazione distale con spirali metalliche (in alternativa colle, grasso autologo, trombina) rappresenta il “gold standard” in questo tipo di perforazioni e consiste nel posizionare nel sito di perforazione delle spirali che stimolano la coagulazione a livello locale permettendo di chiudere la breccia nel vaso (Figura 2). Di solito un singolo catetere guida è abbastanza grande per rilasciare le spirali. Come tecnica di bail-out, dopo fallimento delle spirali è possibile chiudere l’ostio di una branca laterale perforata inserendo uno stent ricoperto nel ramo principale o viceversa nel caso in cui la perforazione interessi il ramo principale, escludendo del tutto il vaso dalla circolazione coronarica. Questo può determinare però un infarto iatrogeno più esteso rispetto all’embolizzazione distale del vaso con coil.

Trattamento delle perforazioni di rami collaterali

La perforazione di rami collaterali è appannaggio soprattutto delle CTO-PCI e nello specifico di quelle eseguite con tecnica retrograda che prevedono la navigazione di collaterali settali o epicardici per raggiungere il cap distale della lesione.

La rottura di un collaterale settale infrequentemente dà origine a sequele drammatiche. Spesso si manifesta come un ematoma settale riconoscibile all’ecocardiogramma come un’area “eco-free” nel setto interventricolare e nella maggior parte dei casi non richiede nessun tipo di trattamento in quanto si risolve spontaneamente. In alcuni casi è possibile trattare questo tipo di perforazioni con la semplice applicazione di un’aspirazione tramite la punta del microcatetere in modo da favorire il collasso del vaso e la chiusura della breccia. Nei rari casi di rottura dell’ematoma intramurale con effusione pericardica il trattamento prevede l’inserimento di coil o l’intervento chirurgico.

Le perforazioni di rami collaterali epicardici sono molto più pericolose di quelle settali perché possono rapidamente evolvere in un tamponamento cardiaco. Per questo motivo l’approccio è più aggressivo e prevede immediatamente come prima tappa l’embolizzazione con coil possibilmente ad ambo i lati del sito di perforazione. Infatti in caso di perforazione di rami collaterali durante una procedura di disostruzione, il sito di emorragia può essere rifornito da più rami e da diversi versanti ponendo un’ulteriore difficoltà nella gestione della complicanza e rendendo in rari casi impossibile un’emostasi totale, richiedendo di conseguenza l’intervento del cardiochirurgo.

Nella Figura 3 è riportato l’algoritmo gestionale di una perforazione coronarica, che tiene conto sia delle misure generali che specifiche da eseguire nel caso di tale complicanza26,27.

CONCLUSIONI

L’incidenza delle perforazioni coronariche durante una PCI rimane fortunatamente bassa nell’era attuale, con un aumento relativo dell’incidenza in PCI complesse come le CTO-PCI. Il trattamento delle perforazioni coronariche richiede una tempestiva diagnosi mediante identificazione angiografica e immediato trattamento dello stravaso emorragico. La peggiore prognosi nei pazienti in cui il sito di perforazione coronarica rimane indeterminato o addirittura nei pazienti in cui la perforazione non viene riconosciuta, suggerisce che ogni ritardo nella diagnosi e quindi nell’istituzione di un trattamento adeguato della perforazione, aumenta la probabilità di eventi cardiovascolari maggiori sia a breve che a lungo termine.

RIASSUNTO

Le perforazioni coronariche rappresentano una temibile complicanza dell’angioplastica coronarica che, se non riconosciute e trattate tempestivamente, possono portare a conseguenze catastrofiche per il paziente. Di conseguenza l’acquisizione delle tecniche di base per il trattamento di una perforazione coronarica diventa indispensabile per il cardiologo interventista per poter svolgere in sicurezza un intervento di angioplastica coronarica. Fortunatamente l’incidenza delle perforazioni coronariche rimane bassa nel corso di angioplastica coronarica. Tuttavia è possibile riconoscere alcuni sottogruppi di pazienti e alcuni tipi di lesioni coronariche, come le occlusioni coronariche croniche totali, che aumentano il rischio di perforazione. I trattamenti attualmente disponibili variano a seconda del tipo e del sito di perforazione coronarica, pertanto il tempestivo riconoscimento della perforazione è di fondamentale importanza per poter instaurare rapidamente il trattamento più adeguato.

Parole chiave. Angioplastica coronarica; Perforazione coronarica; Trattamento.

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