“No-reflow”: update su diagnosi, fisiopatologia
e strategie terapeutiche

Rocco A. Montone1, Massimiliano Camilli2, Marco Giuseppe Del Buono2, Maria Chiara Meucci2,
Filippo Gurgoglione2, Michele Russo2, Filippo Crea1,2, Giampaolo Niccoli1,2

1Dipartimento di Medicina Cardiovascolare, Fondazione Policlinico Universitario A. Gemelli, IRCCS, Roma

2Dipartimento di Scienze Cardiovascolari e Pneumologiche, Università Cattolica del Sacro Cuore, Roma

Primary percutaneous coronary intervention (PCI) represents the reperfusion strategy of choice for patients presenting with ST-segment elevation myocardial infarction. However, despite the restoration of epicardial flow, primary PCI may not determine an effective reperfusion of myocardial tissue due to the occurrence of microvascular obstruction. This phenomenon also known as “no-reflow” may occur in 30-60% of patients treated with primary PCI. Of importance, no-reflow attenuates the benefit of reperfusion therapy and is associated with a poor clinical outcome in terms of adverse ventricular remodeling, heart failure and mortality. The pathophysiology of no-reflow is complex and multiple players may be involved. Indeed, distal embolization, ischemia-reperfusion injury and an individual predisposition to microvascular dysfunction synergically interact to determine the occurrence of no-reflow. In this review, we will analyze the pathophysiological mechanisms, the diagnostic tools and the main therapeutic targets of no-reflow, with particular attention to the most recent acquisitions in this field.

Key words. Diagnosis; Myocardial infarction; No-reflow; Pathophysiology; Personalized treatment.

INTRODUZIONE

L’angioplastica percutanea primaria (primary percutaneous coronary intervention, pPCI) è la strategia di riperfusione di scelta per i pazienti con infarto miocardico acuto con sopraslivellamento del tratto ST (ST-elevation myocardial infarction, STEMI)1,2. Tuttavia, nonostante il ripristino della pervietà del vaso coronarico epicardico, la pPCI potrebbe non riuscire ad ottenere una riperfusione ottimale del tessuto miocardico, a causa di un danno strutturale e funzionale del microcircolo coronarico1,3. Questo fenomeno è una condizione nota come “no-reflow” (NR) o ostruzione microvascolare (microvascular obstruction, MVO), e la sua incidenza in fase acuta può raggiungere anche il 60% in pazienti con STEMI trattati con pPCI1,3. Tuttavia, si è visto che il NR è un fenomeno spontaneamente reversibile in circa il 50% dei casi3. Il verificarsi del NR attenua significativamente l’impatto benefico della terapia di riperfusione a seguito di infarto miocardico e sta emergendo negli ultimi anni come un importante predittore di eventi cardiovascolari avversi al follow-up4,5. Infatti, i pazienti con NR presentano un elevato rischio di rimodellamento ventricolare negativo, un’aumentata incidenza di riospedalizzazione per scompenso cardiaco e un’aumentata mortalità cardiovascolare1,3,6. Inoltre, i pazienti con NR presentano al follow-up anche una maggiore incidenza di angina pectoris rispetto ai pazienti che hanno avuto una riperfusione miocardica efficace6-8.

La fisiopatologia del NR è complessa e multifattoriale. In particolare, i principali meccanismi implicati sono quattro: 1) l’embolizzazione aterotrombotica distale, 2) il danno ischemico, 3) il danno da riperfusione e 4) la suscettibilità individuale al danno microvascolare1,6 (Figure 1 e 2).

In questa rassegna tratteremo i meccanismi fisiopatologici descritti e gli strumenti disponibili per diagnosticare il NR. Ci concentreremo, inoltre, sulle metodiche diagnostiche più avanzate e sulle più innovative strategie terapeutiche al momento disponibili, fornendo nuove prospettive, finalizzate al miglioramento degli outcome clinici del paziente con STEMI.

MECCANISMI PATOGENETICI DEL “NO-REFLOW”

Embolizzazione aterotrombotica distale

Una placca aterosclerotica complessa con trombo sovrapposto può comportare fenomeni di embolizzazione distale di microtrombi e componenti di placca, sia durante la fase di destabilizzazione della placca coronarica che durante la procedura di rivascolarizzazione, provocando un aumento delle resistenze vascolari distali oltre al verificarsi di ulteriori microinfarti9. I principali fattori predittivi di embolizzazione distale sono il carico trombotico, evidente già all’angiografia coronarica, e le caratteristiche della placca “culprit”, le quali possono essere valutate mediante tomografia a coerenza ottica (optical coherence tomography, OCT)9-12. Infatti le placche vulnerabili a cappuccio sottile, valutate mediante OCT, presentano un maggior rischio di embolizzazione distale9-12. Inoltre, i microemboli a livello microvascolare favoriscono il rilascio di sostanze pro-infiammatorie e vasocostrittrici, contribuendo ad aggravare il danno ischemico al di là del semplice effetto meccanico ostruttivo sul microcircolo coronarico13,14.




Danno da ischemia

L’ischemia miocardica prolungata, definita come un flusso ematico <40 ml/min per 100 g di tessuto miocardico, provoca la necrosi dei cardiomiociti oltre al danno delle cellule endoteliali dei vasi coronarici. L’entità del danno ischemico è direttamente correlato alla durata del tempo di ischemia1,15. A livello dell’endotelio, si osserva inizialmente la formazione di “bleb” e protrusioni endoteliali, che ostruiscono il microcircolo1,15. La successiva necrosi delle cellule endoteliali porta alla distruzione delle giunzioni intercellulari con perdita dell’integrità vascolare, che a sua volta determina un accumulo extravascolare di liquido e cellule ematiche15-17. L’edema interstiziale e l’emorragia intramiocardica (intramyocardial hemorrhage, IMH) conseguenti causano a loro volta la compressione ab estrinseco del microcircolo contribuendo anch’essi a determinare MVO. Inoltre, la produzione di ossido nitrico endoteliale risulta alterata, compromettendo la vasodilatazione endotelio-dipendente15,16.

Danno da riperfusione

Il danno miocardico da ischemia è paradossalmente aggravato dal danno secondario alla riperfusione stessa18. Quest’ultimo, causato dal brusco ripristino del flusso ematico a livello del microcircolo danneggiato, causa un danno diretto dei cardiomiociti, incrementando l’edema cellulare ed interstiziale, oltre ad accentuare la discontinuità endoteliale e lo status pro-infiammatorio del miocardio ischemico18. Infatti, all’infiltrazione neutrofilica e piastrinica conseguente alla riperfusione, segue la produzione di citochine infiammatorie, radicali liberi dell’ossigeno, sostanze vasoattive ed enzimi proteolitici che contribuiscono al danno microvascolare18.







Predisposizione individuale

Un componente patogenetico fondamentale nel NR è rappresentato dalla predisposizione individuale alla disfunzione microvascolare. Questa predisposizione può essere sia su base genetica che acquisita. Ad esempio, i classici fattori di rischio cardiovascolare come l’ipercolesterolemia, l’ipertensione arteriosa sistemica e il diabete contribuiscono a determinare una disfunzione microvascolare che è preesistente alla sindrome coronarica acuta1,6. D’altra parte, alcuni polimorfismi genetici, come ad esempio il polimorfismo 1976TC del gene per il recettore dell’adenosina, possono predisporre all’insorgenza di NR19.

METODICHE DIAGNOSTICHE

Diverse metodiche diagnostiche, invasive e non, permettono di individuare la presenza del NR. Tali metodiche sono riassunte nella Tabella 1.

Metodiche invasive

L’angiografia coronarica eseguita durante la pPCI è stata storicamente la prima tecnica utilizzata per identificare il fenomeno del NR20. Infatti, il nome NR nasce dall’osservazione dell’assenza di un flusso coronarico adeguato distalmente alla lesione “culprit”, nonostante la riapertura del vaso epicardico mediante angioplastica coronarica20. La classificazione angiografica dei diversi gradi di flusso coronarico segue la scala TIMI (Thrombolysis in Myocardial Infarction), dove un flusso TIMI 3 rappresenta un flusso normale, mentre un flusso TIMI da 0 a 2 è associato a NR20. Nonostante il flusso TIMI sia un semplice strumento diagnostico, purtroppo manca di sensibilità e specificità per la valutazione del NR. Infatti, il flusso ematico a livello del microcircolo non viene valutato adeguatamente e una percentuale significativa di pazienti con flusso TIMI 3 potrebbe presentare comunque una riperfusione subottimale.

È stata pertanto introdotta la valutazione del “blush” miocardico (myocardial blush grade, MBG)21, un’altra tecnica angiografica per la valutazione della perfusione del microcircolo coronarico. Il “blush” valuta l’intensità della radiopacità del tessuto miocardico ottenuta con un’iniezione del contrasto nelle coronarie epicardiche e la rapidità con cui questa impregnazione diminuisce21. Il MBG varia da 0 a 3 e un MBG da 0 a 1 è diagnostico per NR. Il NR angiografico viene pertanto definito come un flusso TIMI <3 o un flusso TIMI 3 con MBG 0-11,3.

Tuttavia, l’angiografia coronarica rappresenta una tecnica subottimale per la valutazione dell’occorrenza e dell’estensione dell’MVO. Infatti, l’incidenza di NR angiografico si aggira intorno al 20-30% dei pazienti con STEMI, mentre con l’utilizzo della risonanza magnetica cardiaca (RMC), che rappresenta il “gold standard” per la valutazione di MVO, il tasso di incidenza sale al 50-55% dei pazienti con STEMI trattati con pPCI22 (Figura 3).

Per una valutazione più accurata in sala di Emodinamica è possibile utilizzare misure invasive del microcircolo coronarico basate su parametri di flusso o su parametri di resistenza23. La riserva di flusso coronarico misurata con una guida Doppler o la termodiluizione, definita come il rapporto tra il flusso coronarico durante l’iperemia massimale e il flusso coronarico a riposo, fornisce in assenza di ostruzioni epicardiche informazioni sul compartimento microvascolare23,24. Un valore di riserva di flusso coronarico <2.0 ha recentemente dimostrato un’ottima sensibilità (79%) nell’individuare MVO23,24. Inoltre, la misurazione della velocità del flusso sanguigno coronarico utilizzando una guida Doppler intracoronarica permette di individuare il tipico pattern di flusso associato al NR, caratterizzato da un flusso sistolico retrogrado precoce e dalla rapida decelerazione del flusso diastolico23,24.

L’indice di resistenza microvascolare (index of microvascular resistance, IMR), basato sul principio della termodiluizione, è definito come il prodotto della pressione coronarica distale e il tempo medio di transito di un bolo durante massima iperemia usando una doppia guida di pressione e temperatura, e fornisce una valutazione del microcircolo indipendente da parametri emodinamici25. Valori di IMR >25 correlano con la presenza di MVO e con un outcome peggiore nei pazienti con STEMI25. Alternativamente, l’IMR in condizioni di iperemia massimale incorpora la velocità di flusso Doppler per stimare il flusso (invece della termodiluizione), e valori >2.5 mmHg/cm/s sono predittivi di MVO alla risonanza magnetica24. La pressione da flusso zero, estrapolato dalle curve pressione-velocità, è la pressione coronarica distale quando teoricamente il flusso nel vaso sarebbe cessato, e fornisce una valutazione completa del compartimento microvascolare, in quanto valuta il flusso coronarico su una serie di pressioni, indipendentemente dalla contrattilità cardiaca26,27. Inoltre, nel contesto dello STEMI, fornisce informazioni sugli effetti dell’edema interstiziale sul microcircolo26.




Metodiche non invasive

La RMC con somministrazione di gadolinio rappresenta la tecnica “gold standard” per la valutazione dell’MVO, con massima risoluzione spaziale e ottima riproducibilità. La RMC consente la visualizzazione del danno miocardico attraverso l’utilizzo di diverse tecniche come il potenziamento contrastografico tardivo (delayed gadolinium enhancemnt, DGE) e le immagini T2-pesate1-3,27. Inoltre, nuove tecniche parametriche di mapping permettono un’accurata quantificazione del danno miocardico, basate sul cambiamento dei tempi di rilasciamento T1, T2, T2* e la valutazione del volume extracellulare27. Le sequenze T2, oltre ad essere fondamentali per discriminare tra infarto miocardico acuto e cronico (generalmente l’edema si dissolve in circa 4-6 settimane dopo l’infarto), consentono di individuare le aree di IMH28-30. L’IMH è un forte predittore di rimodellamento ventricolare sinistro indipendentemente dall’area infartuale, ed è fortemente associato ad outcome avversi29,30. Nelle immagini T2-pesate, le aree di IMH appaiono come aree di attenuato segnale all’interno di zone edematose ad elevato segnale, a causa dell’effetto paramagnetico dei prodotti di degradazione dell’emoglobina che alterano l’omogeneità del campo magnetico, generando perdita di segnale30. Nonostante la presenza di IMH sia associato con la presenza di MVO, l’identificazione di aree di MVO richiede l’utilizzo della tecnica contrastografica27,28. L’imaging basato sul DGE consiste nell’acquisizione di immagini T1-pesate dopo 10-15 min dalla somministrazione di mezzo di contrasto a base di gadolinio28. Il gadolinio è un mezzo di contrasto con distribuzione extravascolare ed extracellulare, perciò il wash-out di gadolinio è ritardato nelle aree con aumentato volume extracellulare/interstiziale, come le aree di necrosi (in fase acuta) e fibrosi (in fase cronica)31. Il DGE è utilizzato per la visualizzazione dell’MVO che appare come un’area scura, ipointensa, circondata dall’iperintensità del miocardio necrotico31 (Figura 4). I pazienti con evidenza di MVO allo studio RMC sperimentano più eventi cardiovascolari al follow-up, un maggior numero di riospedalizzazioni per scompenso cardiaco ed un’aumentata mortalità cardiovascolare3,27. Alternativamente, l’impregnazione contrastografica precoce è una tecnica contrasto-dipendente in cui le acquisizioni T1-pesate sono eseguite appena dopo la somministrazione di mezzo di contrasto (dopo 1-3 min) con un tempo di inversione più lungo (450-500 ms) rispetto al DGE32. Le aree a basso segnale rappresentano le aree di MVO o di trombo; tuttavia si è visto come l’utilizzo di questa tecnica sia meno efficace nel predire gli outcome rispetto al DGE32. Infine, il metodo di perfusione di primo passaggio (first-pass perfusion, FPP) è un’altra tecnica contrasto-dipendente che consente l’individuazione anche di piccole aree di MVO27,32. La FPP è uno studio dinamico e si basa sulla visualizzazione della distribuzione nel tempo del bolo di mezzo di contrasto paramagnetico durante il primo passaggio a livello del microcircolo miocardico. Un difetto di perfusione si manifesta quindi come una regione di mancata impregnazione contrastografica del tessuto miocardico dovuto ad un’alterazione del microcircolo capillare. Tuttavia il valore prognostico del FPP non è così forte come per il DGE, verosimilmente in considerazione del fatto che individua anche piccole aree di MVO27,32.

Altre tecniche diagnostiche sono state utilizzate per valutare il NR, come la risoluzione del sopraslivellamento del tratto ST all’elettrocardiogramma post-riperfusione, l’ecocardiografia con contrasto e l’imaging nucleare con tomografia ad emissione di positroni, ma la mancanza di sensibilità e/o la complessità di realizzazione (compresa l’accessibilità limitata), rendono queste tecniche meno attraenti per la valutazione routinaria del NR1,6.




TRATTAMENTO DEL “NO-REFLOW”

Il NR è un fenomeno noto da circa 40 anni e in questo lungo arco temporale sono stati proposti numerosi trattamenti3,6. Sebbene ci siano molti dati sperimentali che mostrano l’effetto di terapie applicate ai modelli animali di ischemia-riperfusione, questi trattamenti hanno dimostrato effetti benefici nell’uomo solo su endpoint surrogati (es. quota di area infartuale), senza mai tradursi in un reale miglioramento in termini di endpoint clinici significativi come la mortalità cardiovascolare (Tabella 2)3,6,22,33-42. Questo fallimento può essere almeno in parte dovuto alla molteplicità dei meccanismi implicati nel NR che si trovano ad interagire in ogni singolo paziente. Infatti, in ogni studio si è sempre testato un singolo approccio terapeutico, quando molto probabilmente un approccio terapeutico ottenuto combinando terapie dirette a diversi meccanismi patogenetici potrebbe dare risultati migliori. Nei paragrafi seguenti, ci concentreremo sulle strategie attualmente disponibili nella pratica clinica e quelle promettenti in valutazione in studi clinici.




Strategie farmacologiche

Betabloccanti

La maggior parte degli studi clinici ha valutato l’effetto dei betabloccanti sull’estensione dell’infarto e sulla protezione del cardiomiocita, ma solo pochi hanno esplorato i possibili effetti sull’MVO. In modelli animali, il metoprololo somministrato prima della riperfusione riduceva le dimensioni dell’area infartuale e l’occorrenza di NR, modulando la risposta infiammatoria durante la fase acuta dell’infarto e inibendo la formazione di aggregati di neutrofili-piastrine43. In effetti, il metoprololo altera la migrazione neutrofilica, prevenendo i cambiamenti morfologici necessari per l’interazione intercellulare e la successiva infiltrazione tissutale43. Inoltre, studi preclinici hanno dimostrato che betabloccanti di terza generazione, come carvedilolo e nebivololo, sono in grado di proteggere la microcircolazione coronarica e quindi ridurre le dimensioni dell’infarto21.

Nello studio METOCARD-CNIC (Effect of Metoprolol in Cardioprotection During an Acute Myocardial Infarction)33, che ha arruolato 270 pazienti con STEMI anteriore, il metoprololo per via endovenosa, somministrato nella fase precedente alla pPCI, riduceva l’estensione dell’infarto, impediva il rimodellamento avverso del ventricolo sinistro, preservava la funzione sistolica e riduceva il tasso di riospedalizzazione per insufficienza cardiaca. Da notare come l’effetto cardioprotettivo del metoprololo fosse tempo-dipendente33. Inoltre, una sottoanalisi di tale studio22 ha dimostrato una significativa interazione tra il trattamento con metoprololo e la correlazione tra conta dei leucociti e MVO. In particolare, una correlazione positiva significativa tra conta neutrofilica ed estensione del NR era presente solo nel gruppo di controllo, mentre nei pazienti che assumevano metoprololo prima della riperfusione non vi era alcuna associazione tra i due parametri, suggerendo che la somministrazione del farmaco in corso di infarto miocardico non influisce sui livelli circolanti di leucociti, ma modula l’impatto dei neutrofili sull’MVO.

Al contrario, lo studio EARLY-BAMI (Early-Beta Blocker Administration Before Reperfusion Primary PCI in Patients With ST-Elevation Myocardial Infarction)34 non è riuscito a dimostrare una riduzione dell’estensione dell’infarto ad 1 mese (valutata mediante RMC) con metoprololo per via endovenosa, somministrato appena prima della pPCI nei pazienti con STEMI che si presentano entro 12 h dall’esordio dei sintomi. Le ragioni dei risultati neutri dello studio EARLY-BAMI rispetto allo studio METOCARD-CNIC possono includere il diverso dosaggio (10 vs 15 mg), la tempistica (la maggior parte dei benefici osservati si ottenevano con metoprololo somministrato precocemente, subito dopo l’insorgenza dello STEMI) e la popolazione di pazienti (tutti gli STEMI vs solo STEMI anteriore)22. Si noti che le attuali linee guida della Società Europea di Cardiologia suggeriscono che i betabloccanti per via endovenosa dovrebbero essere considerati al momento della presentazione in pazienti STEMI sottoposti a pPCI senza controindicazioni, senza segni di insufficienza cardiaca acuta e con pressione arteriosa sistolica >120 mmHg (raccomandazione classe IIa, livello di evidenza A)2.

Adenosina

L’adenosina è un nucleoside endogeno caratterizzato da una breve emivita (<2 s) e da numerosi effetti pleiotropici. Essa infatti è un potente vasodilatatore diretto della microcircolazione coronarica, attraverso la stimolazione dei recettori A2, e presenta proprietà antinfiammatorie contro i neutrofili oltre ad inibire l’aggregazione piastrinica6,36. L’adenosina favorisce il precondizionamento ischemico limitando il danno da riperfusione e presenta effetti anti-apoptotici e pro-angiogenetici. Studi clinici su pazienti con infarto e con somministrazione di adenosina al momento della pPCI hanno mostrato risultati contrastanti in termini di miglioramento dell’estensione di MVO e area infartuale, con analisi post-hoc che suggeriscono effetti benefici quando somministrata in pazienti con STEMI che si presentano entro 3 h dall’esordio dei sintomi6,22. Lo studio REOPEN-AMI (Intracoronary Nitroprusside Versus Adenosine in Acute Myocardial Infarction)36 ha dimostrato che alti dosaggi di adenosina per via intracoronarica, somministrata dopo aspirazione del trombo, determinavano un significativo miglioramento dell’MVO e del picco enzimatico, rispetto al placebo o al nitroprussiato di sodio, che si traduceva in una riduzione degli eventi cardiovascolari maggiori e in un rimodellamento favorevole del ventricolo sinistro al follow-up ad 1 anno. Tuttavia, lo studio REFLO-STEMI (Reperfusion Facilitated by Local Adjunctive Therapy in ST-Elevation Myocardial Infarction)35 non è riuscito a confermare questi risultati. Il motivo di tale discrepanza non è chiaro. Tuttavia, una metanalisi di studi clinici condotti nell’era della pPCI ha dimostrato un effetto benefico dell’adenosina intracoronarica, in termini di minore tasso di insufficienza cardiaca dopo l’evento ischemico acuto6,22.

Statine

Nello studio STATIN STEMI (Efficacy of High-Dose AtorvaSTATIN Loading Before Primary Percutaneous Coronary Intervention in ST-Elevation Myocardial Infarction)38, si è dimostrata l’efficacia della somministrazione di alte dosi di statine prima della pPCI nel migliorare l’MVO angiografico, ma non nel ridurre l’estensione dell’infarto, rispetto alle basse dosi. Un’analisi post-hoc dello studio SECURE-PCI (Statins Evaluation in Coronary Procedures and Revascularization)37 ha evidenziato che il sottogruppo di 865 pazienti, sottoposti a pPCI, aveva una riduzione di quasi il 50% degli eventi cardiovascolari a 30 giorni con atorvastatina ad alte dosi (somministrata prima e nelle 24 h successive la pPCI), rispetto a placebo. Allo stesso tempo, una terapia con statine in corso al momento dello STEMI risultava associata ad un tasso inferiore di NR, un migliore recupero funzionale del miocardio dopo 6 mesi di follow-up e una ridotta estensione dell’infarto, rispetto a pazienti che non assumevano statina37. Numerosi studi hanno suggerito che gli effetti benefici del trattamento con statine possono essere correlati ad effetti pleiotropici indipendenti dall’effetto sul metabolismo lipidico.

Peptide natriuretico atriale

Studi sperimentali hanno dimostrato che il peptide natriuretico atriale (ANP) può sopprimere la produzione di endotelina-1 da parte delle cellule endoteliali, con possibili effetti favorevoli sull’MVO, mentre al contrario, un altro studio animale ha dimostrato che ANP può favorire l’infiltrazione infiammatoria del miocardio nella fase iniziale dopo l’infarto, peggiorando così l’MVO6,39. Lo studio J-WIND (Human Atrial Natriuretic Peptide and Nicorandil as Adjuncts to Reperfusion Treatment for Acute Myocardial Infarction)39 ha dimostrato una riduzione della dimensione enzimatica dell’infarto in pazienti con STEMI, trattati con infusione di carperitide (un agonista di ANP) prima della pPCI. Tuttavia, l’effetto di ANP sull’MVO non è mai stato studiato in trial clinici6,18.

Terapia antiaggregante

Recenti dati sperimentali hanno suggerito che gli inibitori piastrinici P2Y12 possono ridurre le dimensioni dell’infarto quando somministrati al momento della riperfusione, conferendo una protezione simile al post-condizionamento44. Tuttavia, una sottoanalisi dello studio PLATO (Study of Platelet Inhibition and Patient Outcomes) non ha riscontrato differenze riguardo alla perfusione miocardica tra clopidogrel e ticagrelor, e nello studio ATLANTIC (Administration of Ticagrelor in the Cath Lab or in the Ambulance for New ST Elevation Myocardial Infarction to Open the Coronary Artery), la somministrazione preospedaliera di ticagrelor in pazienti con STEMI non ha determinato miglioramento della riperfusione coronarica pre-pPCI21. Lo studio REDUCE-MVI (Reducing Micro Vascular Dysfunction in Acute Myocardial Infarction by Ticagrelor)45 non ha riscontrato differenze in termini di MVO o di estensione dell’infarto tra ticagrelor e prasugrel. Attualmente è in corso lo studio PITRI (Platelet Inhibition to Target Reperfusion Injury), che sta testando se il cangrelor somministrato per via endovenosa prima della riperfusione possa ridurre l’incidenza di MVO e limitare le dimensioni infartuali nei pazienti con STEMI trattati con pPCI46.

I risultati degli studi clinici che hanno valutato l’efficacia della somministrazione preospedaliera di inibitori della glicoproteina (GP) IIb/IIIa sono contrastanti. I dati positivi derivano principalmente da indagini in epoca precedente all’uso routinario della doppia terapia antiaggregante. Studi più recenti non hanno mostrato benefici in pazienti trattati con inibitori GP IIb/IIIa in aggiunta alla terapia standard47. Tuttavia, lo studio On-TIME-2 (Ongoing Tirofiban in Myocardial Infarction Evaluation 2)41 ha mostrato che l’inizio preospedaliero di tirofiban in bolo potrebbe determinare risoluzione del tratto ST e migliorare l’esito clinico dopo pPCI. In relazione alle modalità di somministrazione (endovenosa vs intracoronarica), lo studio INFUSE-AMI (Intracoronary Abciximab and Aspiration Thrombectomy in Patients With Large Anterior Myocardial Infarction)42 ha riportato una riduzione significativa dell’area infartuale, valutata con RMC, dopo somministrazione intracoronarica di abciximab. Lo studio AIDA STEMI (Abciximab Intracoronary versus intravenous Drug Application in STEMI)48 ha confrontato direttamente entrambe le vie di somministrazione in 2065 pazienti con STEMI. La somministrazione intracoronarica, rispetto ad abciximab per via endovenosa, ha portato a un tasso simile di eventi cardiovascolari avversi maggiori dopo 90 giorni e 1 anno. Coerentemente, il sottostudio con RMC, non ha mostrato differenze tra i gruppi in termini di danno miocardico e da riperfusione22. Si noti che gli inibitori della GP IIb/IIIa rappresentano l’unica terapia specifica per il trattamento dell’MVO proposta nelle attuali linee guida STEMI della Società Europea di Cardiologia, suggerendo che dovrebbero essere presi in considerazione in caso di evidenza di NR o di complicanza trombotica (classe di raccomandazione IIa, livello di evidenza C)2.

Fibrinolisi intracoronarica

In un iniziale studio clinico randomizzato la somministrazione intracoronarica di una dose ridotta (250 kU) di streptochinasi ha dimostrato di migliorare la riperfusione miocardica, aprendo la strada a successivi studi clinici di maggiore dimensione40. Tuttavia gli studi successivi non hanno confermato il beneficio della fibrinolisi intracoronarica e al momento i dati attuali non supportano il suo utilizzo come terapia adiuvante per migliorare il NR22.

Strategie non farmacologiche

Condizionamento ischemico

Il più potente meccanismo endogeno volto alla limitazione dell’area infartuale è rappresentato dal precondizionamento ischemico, risultato essere in grado di ridurre le dimensioni dell’infarto mediante cicli di occlusione coronarica con palloncino e riperfusione1. Si è dimostrato che anche cicli di breve ischemia transitoria a carico di un altro organo (precondizionamento ischemico remoto) siano benefici nel ridurre l’area infartuale1,15. Tuttavia, il recente trial CONDI-2/ERIC-PPCI non ha dimostrato l’efficacia del precondizionamento ischemico su endpoint clinici49.

Approcci terapeutici invasivi

La tromboaspirazione o i filtri coronarici sono stati sviluppati per ridurre il rischio di embolizzazione distale, meccanismo strettamente coinvolto nella patogenesi dell’MVO6,22. Diversi studi iniziali avevano dimostrato come l’aspirazione del trombo prima della pPCI fosse associata ad un miglioramento degli outcome clinici nei pazienti con STEMI22. Tuttavia, recenti studi randomizzati multicentrici hanno dimostrato che tale tecnica, utilizzata di routine rispetto all’angioplastica da sola, non riduce la mortalità a 30 giorni tra i pazienti con STEMI50. Pertanto, l’uso routinario dell’aspirazione manuale non è più raccomandato dalle attuali linee guida2.

Un altro approccio meccanico proposto consiste nel posizionamento di dispositivi di protezione embolica distale prima dell’impianto dello stent. Sebbene questo sistema effettivamente possa recuperare dei detriti embolici, in realtà non ha mai dimostrato un effettivo miglioramento del flusso microvascolare, dell’estensione dell’infarto o degli outcome clinici6. Pertanto, questi risultati chiaramente dimostrano come l’embolizzazione distale giochi un ruolo parziale nel determinare il NR, suggerendo ancora una volta come la prevenzione dell’embolizzazione coronarica distale debba essere integrata in un approccio globale, che si avvalga di strategie meccaniche e che miri ad altri target terapeutici.

L’OxAMI-PICSO (Oxford Acute Myocardial Infarction–Pressure-Controlled Intermediate Coronary Sinus Occlusion)51 è uno studio osservazionale che ha utilizzato valori di IMR >40 per stratificare i pazienti per l’utilizzo di PICSO prima dello stent. Il PICSO è un dispositivo di occlusione transitoria del seno coronarico il quale, mediante un aumento della pressione del circolo venoso cardiaco, si propone di migliorare la perfusione a livello del microcircolo. Tuttavia, anche questo approccio non ha dimostrato alcuna differenza nella dimensione dell’infarto o MVO alla RMC tra le 24 e 48 h post-infarto, anche se l’estensione finale dell’infarto alla RMC 6 mesi dopo pPCI era inferiore nel gruppo PICSO.

Terapie promettenti

La modulazione della risposta infiammatoria può rappresentare un potenziale bersaglio terapeutico non completamente esplorato. Il danno provocato dal meccanismo di ischemia-riperfusione durante STEMI innesca infatti una reazione infiammatoria precoce che ha lo scopo di rimuovere i detriti necrotici dalla zona infartuale1,6,15. Tuttavia, una risposta infiammatoria esuberante può contribuire al danno microvascolare come documentato dalla presenza dell’edema alla RMC31,32. Inoltre, la persistenza di un processo infiammatorio nella fase cronica dopo l’infarto può contribuire al verificarsi del rimodellamento ventricolare avverso e a scompenso cardiaco1. Probabilmente, un approccio antinfiammatorio “su misura” in pazienti con evidenza di edema miocardico alla RMC permetterebbe di selezionare un sottogruppo di individui, che beneficerebbero di questo trattamento.

Dati emergenti suggeriscono inoltre, che l’MVO e l’IMH a seguito della pPCI portano ad accumulo di ferro miocardico residuo durante la fase cronica post-infartuale che può essere una fonte di infiammazione prolungata52. Tuttavia, un piccolo studio randomizzato, in doppio cieco, che ha utilizzato la chelazione del ferro con deferoxamina (500 mg immediatamente prima della pPCI seguita da un’infusione di 12 h) non è riuscito a dimostrare una differenza significativa nell’endpoint primario di estensione dell’infarto, nonostante riducesse i livelli sierici di ferro e lo stress ossidativo misurati con isoprostani F2 plasmatici dopo pPCI53.

Infine, i periciti sono cellule contrattili proprie delle pareti capillari, noti come il secondo tipo di cellula più comune nel cuore, e possono rappresentare un interessante bersaglio terapeutico. Infatti, i periciti possono restringere irreversibilmente i capillari coronarici dopo ischemia miocardica, ridurre la riperfusione e contribuire al verificarsi di MVO. A tal proposito, si è visto che la somministrazione intracoronarica di adenosina, di antagonisti dell’endotelina e di verapamil può produrre una riduzione di contrattilità dei periciti, con possibili effetti benefici sul microcircolo54.

PROSPETTIVE FUTURE

Per ottenere risultati migliori in termini di cardioprotezione bisogna tener conto che:

• La maggior parte degli studi di cardioprotezione eseguiti negli ultimi decenni ha utilizzato principalmente come endpoint l’estensione dell’area infartuale, ma le strategie volte alla riduzione della stessa non si sono poi dimostrate efficaci nel produrre un miglioramento degli outcome clinici. Le recenti acquisizioni hanno suggerito un valore prognostico dell’MVO maggiore rispetto all’estensione dell’area infartuale, perciò rimane da investigare se l’utilizzo di strategie farmacologiche e non, mirate alla risoluzione dell’MVO si traducano in un miglioramento anche degli outcome clinici.

• I meccanismi implicati nella patogenesi dell’MVO sono molteplici, perciò un approccio selettivo e mirato soltanto ad uno solo di questi potrebbe essere inefficace. Un approccio multi-target che utilizzi una combinazione di strategie terapeutiche può essere il metodo vincente per ottenere una cardioprotezione efficace con miglioramento degli outcome clinici.

• I dati attualmente disponibili relativi agli approcci di prevenzione e trattamento del NR, non hanno dimostrato benefici clinici concreti quando applicati a coorti non selezionate di pazienti con infarto. Ciò si riflette anche nelle attuali linee guida europee e statunitensi, che menzionano la mancanza di prove definitive sull’efficacia di terapie mirate al NR. Pertanto, i futuri sforzi della ricerca dovrebbero essere indirizzati a valutare i potenziali benefici delle terapie in sottogruppi selezionati e più omogenei di pazienti. In particolare, andrebbero studiati i pazienti ad alto rischio e con maggiori probabilità di ricevere beneficio da terapie volte a contrastare il NR, come i pazienti con elevato carico trombotico, estesa area di miocardio a rischio (>30%), ridotto tempo di ischemia (<4 h, oltre questo tempo il danno potrebbe essere in parte irreversibile e le strategie terapeutiche essere inefficaci) e con coinvolgimento prossimale-medio dell’arteria discendente anteriore.

• Non esiste un iter diagnostico condiviso per la diagnosi di NR e pertanto è necessario implementare protocolli diagnostici omogenei per rendere comparabili gli studi clinici.

CONCLUSIONI

Il NR è un fenomeno multifattoriale e complesso e rappresenta un predittore indipendente di eventi clinici avversi nei pazienti con STEMI1,6. Esso si verifica in circa il 30-60% dei pazienti con STEMI e rappresenta pertanto un importante target terapeutico per migliorare la prognosi di questi pazienti22. Al momento attuale non esiste un trattamento che abbia dimostrato una chiara efficacia in termini di riduzione degli eventi clinici avversi22. Tuttavia, un approccio combinato avente come target terapeutico i diversi meccanismi coinvolti nella patogenesi del NR potrebbe rappresentare la strategia ottimale per migliorare la prognosi di questi pazienti.

RIASSUNTO

L’angioplastica coronarica primaria rappresenta il trattamento di riperfusione coronarica di scelta per i pazienti con infarto miocardico acuto con sopraslivellamento del tratto ST (STEMI). Tuttavia, nonostante il ripristino del flusso epicardico, l’angioplastica potrebbe non essere in grado di ottenere un’efficace riperfusione del tessuto miocardico a causa di un’ostruzione del microcircolo coronarico. Questa inefficace riperfusione miocardica nonostante il ripristino del flusso a livello epicardico prende il nome di “no-reflow” e si verifica nel 30-60% dei pazienti con STEMI trattati con angioplastica primaria. Il fenomeno del no-reflow ha significative implicazioni prognostiche in quanto associato ad un rischio maggiore di rimodellamento ventricolare e di scompenso cardiaco a lungo termine, oltre ad un’aumentata mortalità. La fisiopatologia del no-reflow è complessa e coinvolge diversi meccanismi tra cui l’embolizzazione distale di frammenti aterotrombotici, il danno da ischemia/riperfusione ed una suscettibilità individuale al danno microvascolare. In questa rassegna, analizzeremo i meccanismi fisiopatologici, gli strumenti diagnostici e i principali target terapeutici rivolti al no-reflow, con particolare attenzione alle più recenti acquisizioni scientifiche in questo ambito.

Parole chiave. Diagnosi; Fisiopatologia; Infarto miocardico; No-reflow; Trattamento personalizzato.

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