Terapia del diabete e malattie cardiovascolari
Edoardo Mannucci
Diabetologia, Università degli Studi, Firenze

È noto a tutti che il diabete si associa ad un aumento marcato dell’incidenza e ad un peggioramento rilevante della prognosi delle malattie cardiovascolari. Assai più controversa è la possibilità reale, nella pratica clinica, di ridurre la morbilità e la mortalità cardiovascolari associate al diabete. È opinione molto diffusa, nel mondo cardiologico, che il controllo della glicemia sia utile per ridurre l’incidenza delle complicanze microvascolari (retinopatia, nefropatia), ma del tutto inefficace nella prevenzione delle malattie cardiovascolari.
In effetti, i risultati di molti grandi trial di intervento in diabetologia sono stati ben al di sotto delle attese. Gli studi disegnati per verificare l’effetto a lungo termine della riduzione della glicemia hanno dimostrato chiaramente la possibilità di prevenire retinopatia, nefropatia e neuropatia, ma hanno fornito risultati inconsistenti – e spesso di difficile interpretazione – riguardo agli eventi cardiovascolari maggiori e alla mortalità. Alla scarsa chiarezza dei risultati hanno contribuito molti fattori: errori nel disegno sperimentale (almeno in alcuni dei trial), scelta inadeguata dei pazienti da trattare, possibili effetti negativi di taluni dei farmaci utilizzati. Certamente, negli anni in cui i grandi trial cardiologici presentavano una marcia trionfale di risultati positivi, ottenuti con una serie di farmaci diversi (antipertensivi, ipocolesterolemizzanti, antiaggreganti, ecc.), l’iperglicemia restava l’unico, tra i maggiori fattori di rischio, apparentemente inaccessibile ad un trattamento efficace. Anche nei pazienti diabetici, la prevenzione delle malattie cardiovascolari sembrava dipendere più dal controllo di altri fattori di rischio (ipertensione, ipercolesterolemia) che dalla riduzione dell’iperglicemia.
Gli eventi degli ultimi anni hanno ancora accentuato la sensazione di impotenza davanti al rischio cardiovascolare indotto dall’iperglicemia. Su mandato della Food and Drug Administration americana, sui nuovi farmaci per il diabete sono stati avviati grandi trial di sicurezza cardiovascolare, che, in maggioranza, si sono conclusi con un risultato di neutralità. Si tratta di studi disegnati per verificare la sicurezza dei farmaci, cioè per dimostrare che, a parità di controllo glicemico, i nuovi farmaci non determinano un aumento degli eventi cardiovascolari rispetto a quelli preesistenti. La neutralità è quindi il risultato positivo atteso, e non un risultato deludente. La pubblicazione e la diffusione di tante tabelle in cui i farmaci per il diabete non modificano la mortalità e la morbilità cardiovascolare rispetto al placebo, però, anziché essere considerata come una semplice dimostrazione della loro sicurezza, è stata percepita da molti come una conferma della loro inefficacia a questo riguardo.
Al contrario, si è lentamente affermata la percezione che alcune delle terapie utilizzate per il diabete (in particolare per il diabete di tipo 2) potessero avere effetti negativi sul rischio cardiovascolare. L’ipoglicemia grave, che determina una massiva attivazione simpatoadrenergica, potrebbe essere associata ad eventi avversi cardiovascolari (e questo fenomeno potrebbe spiegare gli effetti negativi di un trattamento molto aggressivo del diabete sulla mortalità cardiovascolare). Alcuni anni fa, un farmaco (il rosiglitazone) fu ritirato dal commercio per un presunto (e mai confermato) aumento del rischio di infarto del miocardio. Per altre molecole (pioglitazone, e in misura minore saxagliptin e alogliptin), i trial clinici hanno mostrato un aumento del rischio di ospedalizzazione per scompenso cardiaco, almeno in alcune categorie di pazienti ad alto rischio. Tra i farmaci più tradizionali, la metformina è controindicata nello scompenso cardiaco grave per il rischio di acidosi lattica, mentre le sulfaniluree aggravano la disfunzione miocardica indotta dall’ischemia. Molti (anche nel mondo cardiologico) hanno sviluppato la convinzione che, nel paziente cardiopatico, l’unica terapia “sicura” per il diabete sia l’insulina.
Sebbene la sicurezza sostanziale dell’insulina (evitando per quanto possibile le ipoglicemie gravi) sia stata confermata anche in trial di grandi dimensioni, la gamma dei farmaci utilizzabile per la cura del diabete nei pazienti cardiopatici, una volta superata la fase acuta di una sindrome coronarica, è molto più ampia. Ad esempio, gli studi disponibili dimostrano ormai che, anche poche settimane dopo un evento coronarico, le terapie incretiniche sono assolutamente sicure.
Inoltre, studi recenti mostrano finalmente, per la prima volta, che farmaci disegnati per la riduzione dell’iperglicemia nel diabete di tipo 2 possono determinare, anche indipendentemente dal loro effetto sul controllo glicemico, una riduzione sostanziale della morbilità e della mortalità cardiovascolare nei pazienti con pregressi eventi cardiovascolari maggiori.
Questi ultimi risultati costituiscono un vero punto di svolta, che modifica la percezione che i diabetologi hanno del proprio lavoro. Innanzitutto, i trial più recenti indicano che una terapia razionale del diabete può ridurre in maniera sostanziale il rischio cardiovascolare, con effetti sulla mortalità anche superiori di quelli di altri trattamenti mirati a differenti fattori di rischio. L’aspetto più interessante è che i risultati favorevoli degli ultimi grandi studi nel diabete sono stati ottenuti in pazienti con pregressi eventi, che già erano sottoposti, in grande maggioranza, agli altri trattamenti protettivi sul piano cardiovascolare (farmaci attivi sul sistema renina-angiotensina, betabloccanti, statine, antiaggreganti). Questo significa che l’effetto favorevole dei nuovi farmaci per il diabete, ove presente, è additivo a quello delle altre terapie di prevenzione cardiovascolare e potrebbe finalmente ridurre il gap di rischio esistente tra persone con il diabete e soggetti non diabetici.
Una seconda conseguenza logica dei risultati dei più recenti trial cardiovascolari nel diabete è che la scelta della terapia ipoglicemizzante, lungi dall’essere ininfluente per gli esiti, incide profondamente sulla prognosi. In altri termini, se per la prevenzione delle complicanze microvascolari qualunque intervento terapeutico è efficace, purché riduca l’iperglicemia, per le malattie cardiovascolari farmaci diversi danno risultati differenti sulla mortalità e sulla morbilità.
Un corretto inquadramento e un’adeguata impostazione della terapia del diabete, quindi, possono avere un impatto notevole sull’aspettativa di vita, oltre che sulla qualità della vita, di moltissimi pazienti. I contributi di questo supplemento raccolgono, in maniera critica, una serie di evidenze al riguardo, che rappresentano un’opportunità e una sfida. L’opportunità è quella, offerta dalle nuove terapie, di migliorare la prognosi a lungo termine del diabete di tipo 2. La sfida è quella di riorganizzare i nostri sistemi sanitari in maniera tale da poter cogliere appieno questa opportunità, restituendo alla cura della cronicità lo spazio che, negli ultimi decenni, le è stato progressivamente sottratto a favore del trattamento dell’acuzie.