Comorbosità, disabilità, fragilità
Mauro Di Bari, Gaia Rubbieri
SOD Cardiologia e Medicina Geriatrica, Università degli Studi e Azienda Ospedaliero-Universitaria Careggi, Firenze
In Italy, life expectancy at birth has reached 80 years in men and 85 in women; in about 50 years, life expectancy at the age of 80 has increased by an extraordinary 61% and 55%, respectively, due to more effective therapies and lower mortality of many diseases. Yet, chronic diseases are nowadays more important, and often coexist as comorbidity or multimorbidity, depending on whether an index condition has been considered. These conditions increase the risk of death and reduce functional autonomy in the elderly and, therefore, should be carefully considered within comprehensive geriatric assessment. In particular, functional assessment has a crucial role in identifying older persons with disabilities in basic and instrumental activities of daily living, as well as frail elderly subjects. Frailty results from the progressive inefficiency of homeostatic mechanisms as manifested by reduced physical performance. Acute and chronic diseases may contribute to frailty by reducing functional reserves, thus unmasking previously latent functional deficits. Consequently, the care of the elderly, who is often affected by multimorbidity, disability, and frailty, cannot be confined solely to the evaluation and treatment of single organ diseases, but should follow a global approach.
Key words. Disability; Frailty; Multimorbidity.
LA CRONICITÀ IN UNA SOCIETÀ CHE INVECCHIA
All’inizio del terzo millennio, in Italia come nella maggior parte dei paesi economicamente più avanzati la durata della vita ha raggiunto valori che un secolo fa erano del tutto impensabili. L’aspettativa di vita alla nascita era, nell’Italia di inizio ‘900, di poco superiore ai 40 anni in entrambi i sessi, mentre ai giorni nostri raggiunge quasi gli 80 anni negli uomini e gli 85 anni nelle donne. Mentre per molti decenni la gran parte del guadagno in anni di vita era principalmente dovuto alla diminuzione della mortalità in età giovanile, a partire dagli anni ’80 il declino della mortalità ha preso ad interessare in misura crescente le fasce di età più avanzata: il ritmo di crescita della speranza di vita a 65 anni accelera notevolmente rispetto a quello alla nascita e si impenna ancor di più, soprattutto nel sesso femminile, verso gli 80 anni. Se dal 1960 al 2007 l’aspettativa di vita alla nascita è cresciuta solo (si fa per dire!) del 17% nelle donne e del 18% negli uomini (3 mesi guadagnati ogni anno di calendario), quella a 80 anni è, nello stesso arco di tempo, balzata in avanti di ben il 61% e 55%, così da raggiungere quasi i 10 e gli 8 anni, rispettivamente (Figura 1) 1.
Non si deve credere, in virtù di un alquanto ingenuo ottimismo, che tale straordinaria rivoluzione demografica già citata nel capitolo immediatamente precedente di questo stesso Supplemento, sia un corollario scontato e garantito universalmente, quasi obbligato, del progresso economico, tecnico-scientifico e sanitario di una nazione. Al contrario, è proprio delle società più avanzate l’amplificarsi delle disparità tra le loro componenti: come riportato di recente, negli Stati Uniti la differenza di sopravvivenza media tra bianchi con almeno 16 anni di istruzione e neri con meno di 12 anni ammontava nel 2008 a ben 14.2 anni nel sesso maschile e 10.3 in quello femminile e, dato ancor più allarmante, queste differenze erano cresciute rispetto a solo pochi anni prima 2. È dunque evidente che l’invecchiamento demografico è misura del benessere di una popolazione, contro il quale possono ergersi barriere di tipo economico e sociale, che vanno attivamente identificate e combattute.
Lo straordinario incremento dell’aspettativa di vita, in particolare nei soggetti di età già avanzata, è in buona misura conseguenza delle migliorate possibilità di cura e della minore letalità di malattie che, in un passato anche recente, erano spesso gravate da prognosi infausta. Tra queste, alcune importanti cardiopatie, come la sindrome coronarica acuta, lo scompenso cardiaco e la fibrillazione atriale. Questo risultato, sicuramente favorevole, comporta tuttavia un accresciuto peso della cronicità e della pluripatologia, che si fanno più comuni con l’avanzare dell’età. L’epidemiologia delle malattie cardiovascolari, come dimostrato tra gli altri dall’Oxford Vascular Study 3, mostra un chiaro andamento età-dipendente, in quanto il numero di eventi e la loro incidenza aumentano con l’età, e circa la metà si concentra oltre i 75 anni (Figura 2). Altre importanti condizioni cardiovascolari, quale la fibrillazione atriale, e i loro fattori di rischio (ipertensione arteriosa, diabete mellito), hanno un rilevante impatto epidemiologico in tarda età4, mentre l’elenco delle più comuni malattie croniche dell’età geriatrica comprende anche la broncopneumopatia cronica ostruttiva, la demenza, la depressione, la frattura di femore e – forse la più comune in assoluto – l’artropatia degenerativa: circa il 30%, il 15% e l’8% degli ultra65enni della popolazione generale è affetto da artrosi di ginocchio, mano e anca in forma sintomatica (con esclusione, quindi, dei casi di puro riscontro radiologico) 5.
Ciascuna di queste malattie, anche isolata, può compromettere lo stato di salute e l’autonomia funzionale dell’anziano, imporgli terapie farmacologiche di lunga durata e, in ultima analisi, peggiorarne la qualità della vita. Ma queste conseguenze sono ancor più gravi e frequenti quando, come spesso avviene, queste malattie coesistono.



COMORBOSITÀ E MULTIMORBOSITÀ
Il termine di comorbosità, comparso per la prima volta nella letteratura medica nel 1970, indica “l’esistenza o la comparsa di ogni distinta entità clinica aggiuntiva durante il decorso di una specifica malattia (malattia indice) per la quale il paziente sia seguito”6. La comorbosità non ha relazione eziologica con la diagnosi primaria, in ciò distinguendosi dalle complicanze, che della malattia indice o del suo trattamento sono sequele. Più di recente, è stato proposto il concetto di multimorbosità, ovvero “la concomitanza di più malattie acute e croniche in un soggetto”7, in cui scompare il riferimento alla malattia indice: in effetti, questa definizione meglio descrive quanto comunemente si osserva nel paziente anziano, in cui spesso il clinico non riesce ad individuare una patologia dominante e si trova a fronteggiare più forme morbose allo stesso tempo8. La multimorbosità cresce con l’età anche all’interno della popolazione geriatrica, tanto che al di sopra dei 75 anni più della metà delle persone riferiscono almeno tre patologie croniche coesistenti4, ed è maggiore nelle donne9, che per questo motivo trascorrono una più lunga parte della loro vecchiaia in condizioni di disabilità10.
Comorbosità e multimorbosità interferiscono con tutti i momenti dell’approccio clinico, a partire da quello diagnostico, e rappresentano dunque elementi centrali della complessità del paziente anziano; in un’ottica di sanità pubblica e di economia sanitaria, esse costituiscono i determinanti maggiori dei costi delle prestazioni. Più in dettaglio, la contemporanea presenza di molteplici condizioni morbose rende spesso atipica la manifestazione di esordio di ogni singola malattia e, come tale, rappresenta fonte comune di errori diagnostici. Ne è un buon esempio la confusione mentale, che è sì tipica della demenza, ma caratterizza anche l’esordio delle più svariate condizioni, dall’iperpiressia di una banale sindrome influenzale allo scompenso cardiaco riacutizzato o alla frattura di femore, mentre talvolta compare anche solo in rapporto a cause ambientali, come l’ospedalizzazione o l’istituzionalizzazione. Ancora, co- e multimorbosità rendono assai complesso l’approccio terapeutico, che nell’anziano ben di rado può aderire completamente alla medicina basata sull’evidenza e alle sue linee guida, in genere sviluppate in soggetti più giovani e senza sostanziali patologie associate 11. Anzi, l’applicazione eccessivamente rigida di linee guida organo- e malattia-specifiche ad un paziente geriatrico “tipo”, può comportare conseguenze indesiderabili, se non addirittura potenzialmente dannose12, prima fra tutte la polifarmacoterapia13. Al crescere del numero di prescrizioni, infatti, aumenta il rischio di interazioni farmacologiche ed effetti avversi, così che la polifarmacoterapia può rappresentare un indipendente fattore di rischio di morte nell’anziano14.
Esistono vari approcci per quantizzare co- e multimorbosità9,15: in genere, essi sono basati sull’identificazione clinica delle malattie (possibilmente anche associata a pesatura della loro gravità); più di rado, invece, sull’analisi dei pattern terapeutici, nell’assunto che l’impiego di determinati farmaci rappresenti una spia attendibile della presenza di una determinata malattia9,16. Sebbene i metodi che considerano non solo la presenza, ma anche la gravità di ogni singola malattia (ad es. Charl­son Comorbidity Index17, Index of Co-Existent Disease18) siano più accurati nel predire la conseguenze ultime (morte o disabilità) del carico di co- e multimorbosità, risultati soddisfacenti sono forniti anche da una semplice conta del numero di malattie croniche coesistenti, mentre le scale basate sul pattern terapeutico sembrano dotate di una validità predittiva sostanzialmente inferiore9. Tra le scale in cui viene pesata la gravità della malattia, oltre a quelle già ricordate17,18, si deve anche citare la Cumulative Illness Rating Scale (CIRS)19: pur riconoscendone la diffusione e l’importanza, riteniamo tuttavia che la CIRS non sia una scala ottimale, in quanto per la stima della gravità considera anche l’impatto della malattia sullo stato funzionale e, pertanto, non consente poi di valutare in modo indipendente la correlazione tra malattia cronica e funzione globale.
DISABILITÀ E FRAGILITÀ
Per quanto importante sia il tema della multimorbosità, non è possibile cogliere appieno la complessità del paziente anziano e del suo stato di salute globale senza considerare gli aspetti cognitivi (che saranno affrontati in un altro articolo di questo Supplemento) e quelli funzionali. In campo cardiologico, una chiara dimostrazione di questo assunto è stata fornita da un ampio studio su pazienti anziani ospedalizzati per scompenso cardiaco, nei quali la prognosi a 30 giorni e a 5 anni era fortemente predetta non solo dalla gravità della cardiopatia, ma anche dalla presenza di sindromi geriatriche, segnatamente demenza e limitazioni nella mobilità 20.
Nell’approccio all’anziano, la valutazione dello stato funzionale21, premessa all’adozione di interventi finalizzati al mantenimento e al recupero della massima autonomia, è parte essenziale e compito specifico della valutazione multidimensionale geriatrica. Il termine “valutazione multidimensionale” indica la metodologia propria della Geriatria, grazie alla quale vengono identificati e, ove possibile, corretti problemi in grado di interferire con lo stato di salute dell’anziano, che possono appartenere, oltre che a quella fisico-funzionale, alle aree clinica, cognitivo-affettiva, socio-economica e relazionale, e ambientale 22. Mentre nell’adulto la disabilità è espressa dall’incapacità lavorativa, nell’anziano il suo riconoscimento coincide con l’incapacità di attendere autonomamente ad attività di base della vita quotidiana (Basic Activities of Daily Living, BADL), quali lavarsi, vestirsi, alimentarsi, mantenere la continenza, usare la toilette, compiere trasferimenti in ambito domestico (anche con l’utilizzazione di ausili). Circa il 10% degli ultra65enni e un terzo degli ultra80enni hanno limitazioni nello svolgimento delle BADL e dipendono, quindi, dall’aiuto di altre persone (nella maggior parte dei casi, familiari) per primarie esigenze di vita. Ad un livello più elevato si pongono invece le attività strumentali della vita quotidiana ( Instrumental Activities of Daily Living, IADL), che comprendono le abilità di usare i mezzi di trasporto o il telefono, di gestire le proprie finanze o la terapia farmacologica, di fare la spesa e prepararsi un pasto, di svolgere lavori domestici anche pesanti; attività rilevanti per l’indipendenza anche al di fuori dell’ambiente domestico e per i riflessi sulla vita sociale.
Lo scopo iniziale con cui le scale BADL e IADL furono proposte era quello di identificare le necessità assistenziali e il contesto di cura più appropriato per un anziano o, al massimo, di guidare l’iter riabilitativo. Non sorprende, dunque, che queste scale siano rimaste a lungo confinate al ristretto ambito infermieristico-assistenziale e riabilitativo. Col passare degli anni, però, si è reso sempre più chiaro che il grado di disabilità esprime in modo sintetico l’effetto combinato delle variazioni indotte dall’invecchiamento “normale” e dalle malattie associate ed è, quindi, in grado di fornire informazioni preziose al clinico: ad esempio, la misura della disabilità migliora la capacità di formulare la prognosi, indipendentemente dalle singole diagnosi cliniche 23. È altresì emerso quanto complessa possa essere la relazione tra patologie associate e deficit funzionale. Da un lato, la multimorbosità accresce fortemente il rischio di disabilità (oltre che quello di morte), in misura proporzionale al numero e alla gravità delle malattie compresenti9. Per altri versi, specifiche associazioni, anche di due sole malattie, possono compromettere grandemente l’autonomia funzionale, con effetto sinergico: ad esempio, la combinazione di scompenso cardiaco ed esiti di ictus comporta un rischio di disabilità molto maggiore di quello prevedibile dalla semplice somma dei rischi attribuibili a ciascuna delle due condizioni, presa individualmente24. La valutazione funzionale ha, pertanto, assunto un ruolo sempre maggiore in ambito geriatrico, perché rappresenta un elemento informativo prezioso attraverso l’intero spettro di condizioni che l’anziano può presentare, e in tutti i contesti di cura. Soprattutto, la valutazione funzionale si dimostra fondamentale per l’identificazione della condizione di fragilità.
Mentre circa un terzo degli anziani non ha alcuna patologia importante e presenta una piena autonomia funzionale anche nelle IADL (soggetti robusti), circa il 10% degli ultra70enni ha uno stato di salute instabile, è affetto da multimorbosità ed esposto ad un rapido deterioramento delle capacità fisiche e cognitive. Nella letteratura geriatrica ci si riferisce a questi soggetti come “fragili”. Disabilità e fragilità sono da considerarsi due condizioni distinte, sebbene abbiano in comune alcune caratteristiche epidemiologiche (prevalenza correlata all’età) e patogenetiche (genesi multifattoriale). Alcuni ricercatori ritengono la fragilità un’accelerazione dei processi che portano all’invecchiamento, mentre altri ne hanno ipotizzato una fisiopatologia peculiare. Vi è, comunque, accordo sul fatto che la fragilità sia da intendersi come espressione di una ridotta riserva funzionale, ovvero di una progressiva inefficienza dei meccanismi deputati a mantenere l’omeostasi biologica. Alla riduzione della riserva omeostatica consegue la marcata vulnerabilità del soggetto fragile di fronte a condizioni stressanti, come una malattia acuta o un cambiamento avverso nelle condizioni ambientali. È per questo che la fragilità può essere meglio caratterizzata mediante la valutazione di funzioni complesse ed integrate, specie durante l’applicazione di stimoli che richiedono al soggetto di attingere alle proprie riserve fisiologiche. L’esempio forse più convincente è la riduzione della velocità del cammino, che è sì fenomeno universale nell’invecchiamento, ma in misura assai variabile da individuo a individuo in relazione a numerosi fattori e si accentua in particolare quando lo stato di salute è precario. Poiché il cammino è un’attività molto complessa, al suo rallentamento possono contribuire alterazioni del sistema nervoso centrale e periferico, insieme alla riduzione dell’efficienza cardiorespiratoria e della capacità di lavoro del muscolo scheletrico. All’atto pratico, quel che conta è che la risultante di queste alterazioni sia un fenomeno semplice da rilevare e quantizzare e che abbia una stretta correlazione con lo stato di salute generale: caratteristiche, queste, che il cammino possiede tutte, giacché la sua riduzione di velocità risulta un formidabile predittore di morte nell’anziano 25.
Il modello interpretativo che meglio corrisponde a questa concettualizzazione della fragilità ed offre una definizione operativa semplice e coerente con i presupposti teorici è quello che Fried et al.26 hanno derivato dai dati epidemiologici del Cardiovascular Health Study. Un ruolo centrale nella definizione di Fried assumono sarcopenia (cioè la perdita età-dipendente di massa muscolare scheletrica)27 e malnutrizione, che condurrebbero a ridotta produzione di energia, condizionando quindi negativamente attività fondamentali, quali camminare o mantenere l’equilibrio. A molti anni dalla sua iniziale formulazione, questo modello ha trovato nuova conferma nello studio epidemiologico InCHIANTI, condotto su anziani non istituzionalizzati di un’area geografica limitrofa a Firenze, nei quali un introito insufficiente di nutrienti e un deficit di massa muscolare sono risultati associati alla fragilità e producono effetti negativi sulla salute 28. Alla luce del modello di Fried, le malattie, acute e croniche, possono contribuire alla genesi della fragilità agendo come causa di un’ulteriore erosione delle riserve funzionali, ovvero come eventi stressanti, in grado di slatentizzare deficit fino a quel momento compensati. L’incapacità di far fronte a richieste di adattamento prolungate o eccessive espone l’anziano fragile al rischio di comparsa di disabilità, che sarebbe dunque una possibile conseguenza della fragilità e non un suo determinante.
Sul piano operativo, il quadro sindromico della fragilità è caratterizzato dalla presenza di almeno 3 delle seguenti 5 condizioni misurabili: debolezza muscolare, perdita involontaria di peso, riduzione della velocità del cammino, ridotto livello di attività fisica abituale e maggiore senso di fatica (Tabella 1). Coerentemente col modello di Fried e aggiornando le già citate, precedenti osservazioni in merito al valore prognostico della disabilità rilevata attraverso questionari 23, numerosi studi dimostrano che una riduzione della performance fisica, documentata attraverso test obiettivi e quantitativi, è un potente predittore di mortalità e, in soggetti inizialmente autonomi sul piano funzionale, dello sviluppo di disabilità. La Short Physical Performance Battery (SPPB) combina un test di equilibrio in 3 posizioni a difficoltà crescente, il cammino su un percorso di 4 metri e un test di alzata ripetuta da una sedia (Figura 3). Dal confronto dei tempi registrati nel singolo caso con quelli di una popolazione di riferimento, il risultato di ciascun test viene trasformato in un punteggio compreso tra 0 (performance pessima) e 4 (performance ottimale), così che il punteggio finale della batteria, somma dei parziali, risulta compreso tra 0 e 12. In un ampio studio di popolazione statunitense su soggetti ultra70enni inizialmente non disabili, il rischio di sviluppare disabilità nelle BADL o nella mobilità, in un arco di tempo di 4 anni, cresceva al decrescere del punteggio SPPB ed era più di 4 volte maggiore per punteggi tra 4 e 6, rispetto a punteggi di 10-12, indipendentemente da età, sesso e presenza di alcune malattie croniche 29. Questi risultati sono stati ripetutamente confermati in altre popolazioni: in particolare, il punteggio SPPB emerge come un potente fattore predittivo di disabilità e mortalità nella popolazione anziana dello studio ICARe Dicomano, anche dopo aggiustamento per età, sesso, livello di multimorbosità e stato cognitivo (Tabella 2)9.






La batteria SPPB si è dimostrata un valido predittore della prognosi non solo in studi di popolazione, ma anche in ambito clinico, in particolare in soggetti cardiopatici: in anziani ospedalizzati per riacutizzazione di scompenso cardiaco cronico, il punteggio SPPB alla dimissione era in grado di predire la mortalità a lungo termine in modo indipendente dalla frazione di eiezione e dalla classificazione funzionale NYHA, entrambe considerate strumenti fondamentali per la stratificazione prognostica del cardiopatico 30. La valutazione funzionale mediante SPPB, pertanto, riesce a cogliere aspetti dello stato di salute dell’anziano che esulano dalla ristretta sfera clinica e da misure organo-specifiche di gravità di malattia e che, probabilmente, esprimono quella condizione di ridotta riserva omeostatica insita nel concetto di fragilità. È per questo che anziani ancora autonomi, ma con performance fisica ridotta, che alla SPPB conseguono punteggi tra 5 e 9, possono essere considerati fragili e ad elevato rischio, meritevoli di particolari attenzioni e specifici interventi, atti a ridurre il rischio di conseguenze avverse.
CONCLUSIONI, CON UNA PROSPETTIVA SUGLI ASPETTI PREVENTIVI
Con l’avanzare dell’età, le malattie cardiovascolari si fanno più frequenti, così il cardiologo è sempre più spesso chiamato a confrontarsi con pazienti geriatrici, nei quali la multimorbosità rende tutto più difficile, accrescendo il rischio di errori diagnostici e terapeutici. La maggiore complessità dell’anziano con multimorbosità, disabilità e fragilità impone senza dubbio un approccio meno incentrato sulla malattia d’organo. Abbiamo visto diversi esempi 21,30 di come la valutazione funzionale, che è parte centrale del bagaglio culturale e professionale del cardiologo, sia fondamentale – pur con specificità tecniche sue proprie, alle quali il cardiologo è poco avvezzo – anche nell’approccio al paziente geriatrico, a maggior ragione se cardiopatico. Essa, dunque, rappresenta un possibile terreno d’incontro tra professionisti diversi, alle prese col cardiopatico anziano.
In aggiunta, numerosi dati suggeriscono gli stretti legami tra fragilità, disabilità e malattia cardiovascolare. Ad esempio, dati del Cardiovascular Health Study dimostrano che la presenza di malattia cardiovascolare subclinica è un fattore di rischio per una più precoce compromissione funzionale e cognitiva e, pertanto, limita le possibilità di successful aging31. Più in generale, è stato dimostrato che non solo la sopravvivenza, ma anche la durata della vita attiva (libera cioè da disabilità) è fortemente condizionata da alcuni dei tradizionali fattori di rischio cardiovascolare, quali il fumo e la sedentarietà32. In accordo con queste osservazioni, evidenze sperimentali indicano che l’attività fisica, il cui ruolo nella prevenzione cardiovascolare è indiscusso, sia anche efficace per la promozione e il mantenimento della salute degli anziani, a qualunque età e in qualunque condizione di salute, anche in presenza di fragilità33,34. Prevenzione cardiovascolare e prevenzione della disabilità nell’anziano hanno, pertanto, bersagli e strategie di intervento comuni.
RIASSUNTO
In Italia, l’aspettativa di vita alla nascita ha raggiunto gli 80 anni negli uomini e gli 85 anni nelle donne; quella a 80 anni è addirittura cresciuta, in circa 50 anni, del 61% e del 55%, rispettivamente, per effetto di cure più efficaci e della minore letalità di molte malattie. Per contro, è aumentato il peso delle malattie croniche, spesso coesistenti in quadri definiti di comorbosità o multimorbosità, a seconda che si consideri o meno una patologia principale. Tali condizioni aumentano nell’anziano il rischio di morte e riducono l’autonomia funzionale e, quindi, devono essere attentamente considerate con la valutazione geriatrica multidimensionale. In questa, ha un ruolo centrale la valutazione funzionale, per identificare gli anziani disabili nelle attività di base e strumentali della vita quotidiana e quelli fragili . La fragilità è frutto della progressiva inefficienza dei meccanismi di mantenimento dell’omeostasi biologica e si manifesta con la riduzione della performance fisico-funzionale. Malattie acute e croniche possono contribuire alla fragilità riducendo le riserve funzionali e slatentizzando deficit fino a quel momento compensati. Di conseguenza, l’approccio all’anziano, che spesso è caratterizzato da multimorbosità, disabilità e fragilità, non può limitarsi alla valutazione e al trattamento della sola malattia d’organo, ma deve assumere una valenza globale.
Parole chiave. Disabilità; Fragilità; Multimorbosità.
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