Nell’arco degli ultimi anni la terapia betabloccante dello scompenso cardiaco è finalmente uscita dalla fase sperimentale e pionieristica in cui si era venuta a trovare nei 20 anni precedenti. L’US Carvedilol Study, il CIBIS II ed il MERIT-HF hanno inequivocabilmente dimostrato come, nei pazienti con scompenso cardiaco da disfunzione sistolica, una terapia betabloccante ben condotta sia in grado di ridurre la mortalità globale incidendo sia sulla progressione dello scompenso sia sulla morte improvvisa. La consapevolezza dell’efficacia e della sicurezza dei betabloccanti nella terapia dello scompenso è il frutto di più di 25 trial randomizzati, relativi a più di 10 500 pazienti trattati e a più di 1150 eventi mortali osservati. In realtà i benefici dimostrati per i betabloccanti sono stati ottenuti in pazienti già trattati, nella stragrande maggioranza dei casi, con diuretici ed ACEinibitori e vanno pertanto intesi come aggiuntivi rispetto a quelli degli ACE-inibitori. La fase iniziale del trattamento prevede controlli clinici ravvicinati allo scopo di poter aumentare con gradualità la dose del farmaco. Prima di poter constatare un beneficio clinico è spesso necessario un periodo di alcune settimane- mesi. La gestione della terapia betabloccante è a basso contenuto tecnologico. L’ecocardiogramma aiuta a selezionare i pazienti da avviare al trattamento mentre non è indispensabile per i controlli successivi. L’inizio del trattamento betabloccante non deve necessariamente essere fatto in ambiente di ricovero ospedaliero. Questa necessità si realizza solo eccezionalmente e per pazienti “particolari”. La terapia betabloccante dello scompenso non è una terapia da riservare a casi eccezionali in ambienti altamente specializzati bensì un provvedimento che si avvia ad essere incluso nel trattamento “standard” dello scompenso, cioè in quell’insieme di misure terapeutiche da offrire sistematicamente al paziente affetto salvo controindicazioni. I betabloccanti non sono necessariamente degli inotropi negativi. Nello scompenso cardiaco il loro impiego cronico si traduce in un effetto inotropo positivo.
Questa consapevolezza deve guidare il medico che si fa carico della terapia e sorreggerlo nei momenti di incertezza.