La chemioterapia rappresenta un approccio terapeutico consolidato nel trattamento delle neoplasie maligne, ma la sua efficacia clinica è spesso limitata dall’effetto cardiotossico, che può determinare una cardiomiopatia dilatativa ed evolvere verso l’insufficienza cardiaca conclamata a prognosi spesso infausta. Lo strumento diagnostico più utilizzato in questo contesto è la valutazione della frazione di eiezione del ventricolo sinistro mediante ecocardiografia, che risulta però poco efficace nel predire la cardiomiopatia in una fase precoce, quando un intervento correttivo potrebbe ancora migliorare la prognosi. Negli ultimi anni, marcatori biochimici cardiospecifici, come le troponine, hanno dimostrato un’elevata efficacia nell’evidenziare il danno da chemioterapia in fase subclinica, positivizzandosi in media 3 mesi prima dell’esordio clinico della disfunzione cardiaca. Inoltre, l’entità del loro aumento è proporzionale al grado di severità della disfunzione ed è utile per predire, con un’elevata probabilità (85%), l’insorgenza di eventi cardiaci maggiori, identificando, inoltre, i pazienti a bassissimo rischio di complicanze con un valore predittivo negativo del 99%. Dalla letteratura non emergono, invece, evidenze definitive che consentano di raccomandare l’impiego dei peptici natriuretici cardiaci per la valutazione della cardiotossicità da farmaci antineoplastici.