Nell’ambito dello scompenso cardiaco le ospedalizzazioni costituiscono la voce più rilevante della spesa sanitaria e pesano per più dei due terzi della spesa globale. Un concetto che ha preso forza negli ultimi anni, e che è stato recentemente sistematizzato in un documento di consenso tra tutte le Società Scientifiche coinvolte nella cura del paziente con scompenso cardiaco, è che un approccio multidisciplinare alla patologia, in grado di garantire una continuità assistenziale, possa essere utile nella stabilizzazione del paziente e quindi nella riduzione dei ricoveri e nel miglioramento della qualità di vita. L’efficacia di una strategia di implementazione della continuità assistenziale multidisciplinare è stata valutata in diversi studi, condotti negli ultimi 10 anni, con risultati generalmente favorevoli anche se non univoci per tutte le strategie testate. Ad esempio, le strategie basate sugli interventi telefonici sembrano efficaci nel ridurre le ospedalizzazioni per scompenso, ma non le ospedalizzazioni totali e la mortalità. Anche nello studio DIAL, nel quale era previsto un intervento telefonico sistematico dopo un follow-up medio di 16 mesi, si è avuta una riduzione dei ricoveri totali e per scompenso, ma non effetti significativi sulla mortalità. I dati del registro IN-CHF confermano la rilevanza delle ospedalizzazioni per questi pazienti. Una analisi relativa a 9000 pazienti mostra che circa il 44% era stato ricoverato per scompenso nell’anno precedente la visita di ingresso nel database e ciò è risultato, nell’analisi multivariata, il predittore indipendente di riospedalizzazione più potente nel corso del successivo follow-up. I dati ad 1 anno, relativi al 92% della popolazione, indicano che un quarto dei pazienti va di nuovo incontro ad un’ospedalizzazione con percentuali più elevate di ricovero nei pazienti in classe NYHA avanzata (32.1%) e con eziologia ischemica (25.0%). Ulteriori dati di un’indagine condotta recentemente in Italia su 1572 pazienti ricoverati per scompenso acuto dipingono un quadro ancora più pessimistico: dei 1152 pazienti per i quali sono disponibili informazioni a 6 mesi, più del 40% era stato ricoverato almeno 1 volta e il 7.2% aveva avuto due o più ricoveri.