corrispondenza

All’Editor. Desidero esporre alcuni commenti critici relativi alla rassegna apparsa sul n. 11/2010 del Giornale Italiano di Cardiologia dal titolo “Emergenze e urgenze ipertensive: update clinico”1.
Nella rassegna manca una definizione di “crisi ipertensiva”: se vale l’equivalenza con quanto riportato nelle linee guida JNC 7 del 20032 , allora la Tabella 2 non riassume le cause di una “crisi ipertensiva”, bensì le cause delle “emergenze ipertensive” (così come riportato nel titolo della Tabella stessa). Se invece per “crisi ipertensive” si intendono solo le “emergenze ipertensive” (come altri autori fanno3), questo andrebbe precisato esplicitamente per non indurre a fraintesi nel seguito della rassegna.
Appare peraltro corretto mantenere la distinzione tra “emergenze ipertensive” ed “urgenze ipertensive” considerata l’importante differenza clinica, cioè le emergenze ipertensive presentano un danno acuto d’organo, mentre le urgenze ipertensive sono marcati incrementi transitori della pressione arteriosa senza danno acuto degli organi bersaglio. A proposito di urgenze ipertensive, le linee guida citate non fanno alcun riferimento a danni d’organo minimi o non evidenti (sempre acuti si intende). Le stesse linee guida si guardano bene dal definire valori cut-off di pressione arteriosa e ritengo che il riferimento a qualunque valore sia assolutamente discrezionale data la variabilità delle condizioni cliniche e della risposta individuale.
È vero che “emicrania, epistassi, dispnea, o ansia grave” sono sintomi che spesso si associano ad incrementi acuti della pressione arteriosa, ma sarebbe bene precisare che tale associazione comunque non identifica un rapporto unidirezionale di causa-effetto, ma più spesso sono i sintomi sopra riferiti la causa dell’incremento pressorio, per cui la terapia deve proporsi il trattamento dei sintomi stessi, piuttosto che abbassare prioritariamente i valori pressori (con possibili e più gravi complicanze). Per quanto possa valere la particolarità dell’esperienza quotidiana, durante le prove da sforzo non è infrequente raggiungere livelli di pressione arteriosa sistolica >220 mmHg, ma non mi è mai accaduto che i pazienti accusassero uno dei sintomi sopra riferiti.
Infine avrei gradito, a latere della succinta descrizione di farmacocinetica e farmacodinamica dei singoli presidi terapeutici, una discussione clinica non solo relativa ai pazienti con emergenze ipertensive, dove l’intervento è d’obbligo, ma anche ai pazienti con urgenze ipertensive, presentando le problematiche relative a chi trattare, di quanto ridurre la pressione, in che tempi, e i controlli opportuni, visto che la terapia con farmaci non titolabili (orali in primis, ma anche altri farmaci come i diuretici per via endovenosa) è purtroppo la più usata, ma anche ampiamente criticata4-7.

Luigi Rusconi 
Specialista in Malattie dell’Apparato Cardiovascolare
Già Direttore U.O. di Cardiologia
P.O. “G. Ceccarini” di Riccione
bibliografia
1. Milan A, Puglisi E, Ferrari G, et al. Emergenze e urgenze ipertensive: update clinico. G Ital Cardiol 2010;11:835-48.
2. Chobanian AV, Bakris GL, Black HR, et al.; National Heart, Lung, and Blood Institute and National High Blood Pressure Education Program Coordinating Committee. Seventh report of the Joint National Committee on Prevention, Detection, Evaluation, and Treatment of High Blood Pressure. Hypertension 2003;42:1206-52.
3. Varon J, Marik PE. The diagnosis and management of hypertensive crises. Chest 2000;118:214-27.
4. Grossman E, Messerli FH, Grodzicki T, Kowey P. Should a moratorium be placed on sublingual nifedipine capsules given for hypertensive emergencies and pseudoemergencies? JAMA 1996; 276:1328-31.
5. Mansoor GA, Frishman WH. Comprehensive management of hypertensive emergencies and urgencies. Heart Dis 2002;4:358-71.
6. Blumenfeld JD, Laragh JH. Management of hypertensive crises: the scientific basis for treatment decisions. Am J Hypertens 2001; 14(11 Pt 1):1154-67.
7. Soldini M, Carmenini E, Liguori A, Baratta P, Curcio D, Giancaspro G. Guidelines for the management of hypertensive crises and simple blood pressure rise. Literature review and clinical experience. Clin Ter 2002;153:329-33.


Risposta. Desideriamo rispondere ai commenti fatti relativi alla rassegna da noi redatta dal titolo “Emergenze e urgenze ipertensive: update clinico”.
La definizione di “crisi ipertensiva” include sia le urgenze che le emergenze ipertensive, come da noi riportato [più precisa, invece, la classificazione del Joint National Committee on Prevention, Detection, Evaluation, and Treatment of High Blood Pressure (JNC) che distingue le emergenze ipertensive dalle urgenze ipertensive]. Crisi ipertensiva, infatti, è un termine generico, non troppo corretto ed è sempre più appropriato riferirsi a emergenze e urgenze ipertensive. Per tale ragione nel nostro lavoro si citano più spesso queste due entità nosologiche, piuttosto che le crisi ipertensive.
Si fa notare che la Tabella 2 elenca le cause di emergenza ipertensiva mentre nel testo si fa riferimento alle cause di crisi ipertensiva; questo potrebbe essere fuorviante. Apprezziamo sia stato fatto notare.
È bene sottolineare che le urgenze ipertensive si distinguono dalle emergenze ipertensive per la presenza in quest’ultima condizione di un danno d’organo acuto. Vero è che epistassi/emicrania/dispnea/ansia grave rappresentano segni/sintomi che possono associarsi a valori pressori elevati (come peraltro enunciato nelle linee guida JNC 7). Questi quadri, spuri, certo non possono essere interpretati come delle emergenze ipertensive ed, in accordo con le linee guida JNC, sono stati semplicemente riportati a titolo di esempio (sono comunque segni di danno d’organo minimo!).
Ci troviamo d’accordo nel dire che tali segni/sintomi possano anche essere essi stessi causa del rialzo pressorio e non il contrario; la grande variabilità dei quadri clinici che si associano ad un aumento dei livelli pressori rende angusto riuscire a discernere tra modalità causa/effetto ed il medico, suffragato dalla sua esperienza clinica, dovrebbe essere in grado di affrontare tali situazioni decidendo se trattare gli elevati livelli pressori o piuttosto dedicarsi alla causa determinante.
Infine, la disamina più approfondita del trattamento farmacologico delle urgenze ipertensive non è stata effettuata per ragioni di limiti di stampa; è stato quindi considerato che il trattamento delle emergenze ipertensive fosse, in quanto più temuto e spesso difficoltoso, di maggiore rilevanza e, pertanto, affrontato più estesamente.

Alberto Milan 
Dipartimento di Medicina e Oncologia Sperimentale
Centro Ipertensione Arteriosa
A.O.U. San Giovanni Battista di Torino

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All’Editor. Il prof. Giuseppe Oreto, ultimo insigne erede dei grandi maestri di Elettrocardiografia deduttiva, ha cercato con autorevoli colleghi di mettere ordine all’ECG di una sindrome di cui molti parlano accettando pedissequamente gli ultimi dettami, pochi hanno esperienza, e nessuno ha ancora dati basati sull’evidenza per fornire criteri diagnostici, prognostici e fisiopatologici chiari e sicuri1.
Come allievo storico del prof. Andrea Nava, massimo aritmologo clinico italiano degli ultimi due secoli, Giuseppe Oreto e il Giornale Italiano di Cardiologia avrebbero forse potuto meglio onorare la prima segnalazione storica della sindrome e dell’ECG2,3 comparsa nel 1988, anticipata da due abstract sul Giornale Italiano di Cardiologia [G Ital Cardiol 1988;18(Suppl 1):118,136]. Sicuramente chiamare la sindrome e il relativo ECG come sindrome di Nava e segno di Nava non sarebbe stato dis­dicevole e l’aver invitato il primo scopritore a tale “conference” non sarebbe forse stato privo di utilità anche scientifica.
Non è chiaro perché una scoperta italiana debba venire nascosta e non valorizzata, ad onore sicuramente della Scuola Italiana più che dei singoli autori. Abbiamo insegnato la Medicina moderna a tutto il mondo, non è il caso di vergognarci se non parliamo tutti un inglese “fluent”.
Le scoperte italiane in merito alla cardiomiopatia del ventricolo destro, alla tachicardia polimorfa da sforzo, al QT corto, ecc., sono spesso citate con nomi di origine anglosassone. La morte recente del prof. Cesare Romano, scopritore del QT lungo, non ha ricevuto alcun commento in nessuna rivista italiana.
Forse c’è qualcosa che non va.
Relativamente all’ECG della sindrome, viene accettata la classificazione della Consensus Conference del 2002, fonte di pesanti inesattezze, e foriera di implicazioni cliniche non indifferenti per soggetti altrimenti sani. I database degli impianti di defibrillatori nel mondo hanno avuto incredibile impulso dopo tale classificazione, facendo divenire malati gravi, soggetti sani con semplice influenza4. Questa classificazione non tiene scientificamente conto dei dati reali pubblicati in letteratura relativamente a pazienti con la sindrome vera (ECG+sintomi). Coloro che avranno la bontà di esaminare tali dati (posso fornire tutti gli articoli), si accorgeranno che praticamente tutti i pazienti reali avevano spontaneamente solo il tipo 1, e che non raramente erano presenti altri aspetti segnalati, ed in particolare un PR allungato ed una deviazione assiale sinistra, che aumentano la specificità di quanto unicamente rilevabile in V 1-V3. La maggioranza degli autori concorda attualmente e fortunatamente che il tipo cosiddetto 3 non faccia parte della sindrome, e che discutibile sia anche il tipo 2 in assenza di sintomi, e di spontanea variazione in tipo 1.
È sicuramente utile registrare un ECG in spazi intercostali superiori, ed a questa scoperta bisogna ancora dare il giusto merito sempre ad altri autori italiani, ed a questa rivista5.
Poco interesse ha suscitato negli autori la ricerca dei potenziali tardivi e il vettorcardiogramma, tecniche in disuso, ma che consentono di chiarire cosa ci sia alla base del sopraslivellamento del tratto ST6,7. Quando positivi (e non è raro), questo è un indiscutibile segnale della presenza di un disturbo di conduzione a livello infundibolare come dimostrato nel primo lavoro di Nava2. Uno studio positivo contraddice molte delle teorie popolari su un’alterata ripolarizzazione e su disordini ionici (che mai presentano potenziali tardivi positivi), ribadite con forza anche nella presente conference, ma ultimamente peraltro non più sostenute neanche dai maggiori autori delle stesse8. Anche il test ai farmaci di classe 1C chiaramente slatentizza un disturbo di conduzione e non certo un’alterazione genetica ionica. Senza cercare tanti esperimenti basta registrare i potenziali tardivi prima e dopo il farmaco per documentarlo7.
Per quanto riguarda la fisiopatologia della sindrome, la teoria maggiormente nota di cuori sani è priva a tutt’oggi di minimi elementi scientifici. Mi spiace dover ricordare ancora una volta che non esiste al momento alcuna segnalazione in letteratura di cuori normali all’autopsia dopo morte improvvisa per la sindrome. Tutti i cuori esaminati presentavano alterazioni del ventricolo destro, ed in particolare del tratto di efflusso e del tessuto di conduzione.
Di questi dati, spesso volutamente non valorizzati, forse si dovrebbe tener conto nei futuri lavori, prima di addentrarsi in teorie autoreferenzianti ma difficili da dimostrare.

Bortolo Martini
U.O.C. di Cardiologia
Ospedale Boldrini di Thiene (VI)
bibliografia
1. Oreto G, Corrado D, Delise P, et al. Dubbi del cardiologo davanti ad un elettrocardiogramma che presenta in V1-V3 complessi QRS con onda positiva terminale e sopraslivellamento del segmento ST. G Ital Cardiol 2010;11(11 Suppl 2):3S-22S.
2. Nava A, Canciani B, Schiavinato ML, et al. La repolarisation precoce dans le precordiales droites: trouble de la conduction intraventriculaire droite? Correlations de l’electrocardiographie-vectorcardiographie avec l’electrophysiologie. Mises a Jour Cardiologiques 1988;17:157-9.
3. Martini B, Nava A. A long lasting electrocardiographic history. Heart Rhythm 2010;7:1521.
4. Baranchuk A, Simpson CS. Brugada syndrome coinciding with fever and pandemic (H1N1) influenza. CMAJ 2011 Jan 10 [Epub ahead of print].
5. Naccarella F. Malignant ventricular arrhythmias in patients with a right bundle-branch block and persistent ST segment elevation in V1-V3: a probable arrhythmogenic cardiomyopathy of the right ventricle. G Ital Cardiol 1993;23:1219-22.
6. Nava A, Canciani B, Buja GF, et al. El electrocardiograma y el vectorcardiograma en la dysplasia arritmogénica del ventriculo derecho. Rev Lat Cardiol 1992;15:276-83.
7. Martini B, Nava A, Ruzza L, et al. La sindrome “morte improvvisa giovanile, blocco di branca destra e sopraslivellamento del tratto ST”. Giornale Italiano di Aritmologia e Cardiostimolazione 1999;2:157-77.
8. Guillem MS, Climent AM, Millet J, et al. Conduction abnormalities in the right ventricular outflow tract in Brugada syndrome detected body surface potential mapping. Conf Proc IEEE Eng Med Biol Soc 2010;1:2537-40.
Risposta. Non posso non ringraziare il dr. Bortolo Martini per avermi definito come “ultimo grande erede dei grandi maestri di Elettrocardiografia deduttiva”. Forse è un complimento eccessivo. In ogni caso, spero di non essere realmente “l’ultimo”, ma solo uno dei tanti che considerano l’ECG una fonte inesauribile di informazioni cliniche. Per quanto concerne il prof. Nava, comune Maestro del dr. Martini e mio, il suo ruolo di leader nel settore Elettrocardiologico e in particolare Aritmologico è universalmente riconosciuto, e nessuno ignora i suoi fondamentali contributi, soprattutto quelli dedicati alla cardiomiopatia aritmogena. Che, tuttavia, l’associazione tra morte improvvisa e determinati quadri elettrocardiografici sia stata popolarizzata dai Brugada è un dato di fatto innegabile. Va riconosciuto (e anche il testo recentemente pubblicato sul Supplemento del Giornale Italiano di Cardiologia non si sottrae a tale obbligo) che Martini, Nava, Thiene et al. avevano già descritto un caso di morte improvvisa con ECG caratteristico, ma diventa difficile se non impossibile modificare una terminologia ormai condivisa da oltre un migliaio di pubblicazioni, proponendo un’alternativa all’eponimo che vede l’alterazione caratteristica dell’ECG associata al nome dei Brugada.
Il gruppo di lavoro dalla Società Italiana di Cardiologia che ho avuto l’onore (ma anche l’onere!) di coordinare ha accettato la classificazione dell’ECG in tre tipi per il semplice fatto che il quadro elettrocardiografico è estremamente mutevole nel tempo: come tutti sanno, il soggetto che oggi mostra il tipo 1 domani avrà il tipo 3 o anche un ECG perfettamente normale. Registro il disaccordo del dr. Martini, la cui opinione è che i quadri elettrocardiografici definiti come 2 e 3 siano del tutto “innocenti”, ma ho visto troppi casi con tipo 3 che a un controllo successivo presentavano il tipo 1 (uno di essi compare nella Figura 2 dell’articolo pubblicato sul Supplemento del Giornale) per essere d’accordo con questo punto di vista.
Il “dissenso” nel campo scientifico, però, non è privo di significato perché spinge a cercare soluzioni future: il testo pubblicato di recente, opera non solo mia, non è un punto di arrivo, ma il necessario bilancio di una tappa intermedia. Nonostante questi limiti, credo che esso abbia cercato di ribadire alcuni punti fondamentali fra cui, in primo luogo, l’impossibilità a diagnosticare una “sindrome” in base al solo ECG. Lo scopo principale del nostro scritto non è stato mettere a fuoco tutti gli aspetti del problema, ma soprattutto suggerire un comportamento al Cardiologo che si imbatte in un soggetto il cui ECG presenta segni dimostrativi, o anche solo sospetti, di un pattern di Brugada. Abbiamo, almeno credo, sottolineato le difficoltà che quotidianamente si incontrano e, senza pretendere di fornire una soluzione definitiva, tracciato un possibile percorso il cui profilo rappresenta la sintesi di quello che gli autori dello scritto quotidianamente mettono in pratica.
Un’ultima nota merita la considerazione di Martini riguardo al vettorcardiogramma. Premetto che da giovanissimo sono stato “innamorato” di questa tecnica e che proprio a Padova, nel Laboratorio del prof. Nava, ho registrato e analizzato un numero considerevole di vettorcardiogrammi. Ma l’amore non deve essere cieco e occultare i limiti dell’oggetto amato: a distanza di decenni ritengo che la vettorcardiografia abbia il grande merito di insegnare a interpretare l’ECG in termini vettoriali anziché morfologici (ho cercato di sottolineare questo concetto in un mio recente libro di Elettrocardiografia), ma che la sua utilità clinica attuale sia praticamente nulla, posto che la quasi totalità delle informazioni che essa offre sono già desumibili dall’ECG.

Giuseppe Oreto
Dipartimento di Medicina e Farmacologia
Università degli Studi di Messina