In questo numero
processo ai grandi trial




Lo studio CURRENT-OASIS 7:
è davvero il “canto del cigno” del clopidogrel?
Il clopidogrel ha sicuramente rappresentato
un cambiamento radicale nell’inibizione dell’attivazione piastrinica e nella terapia delle sindromi coronariche acute; il suo prepotente ingresso nella farmacopea ha profondamente modificato le abitudini terapeutiche del cardiologo sia clinico che interventista. Tuttavia, il recente avvento di tienopiridine di nuova generazione, forti di una maggiore efficacia e rapidità d’azione e l’evidenza di una notevole variabilità individuale alla risposta al farmaco, stanno seriamente minacciando la
leadership, fino ad ora incontrastata, del clopidogrel. È dunque giunto il momento, per una molecola che tanto ha saputo dare alla cardiologia moderna, di iniziare la sua parabola discendente?
L’obiettivo del CURRENT-OASIS 7 era proprio quello di valutare nuove e più efficaci modalità di utilizzo del clopidogrel raddoppiando, per esempio, la dose giornaliera a 150 mg nei 7 giorni successivi all’angioplastica coronarica; i risultati mostrano tuttavia che tale strategia non si associa ad un significativo vantaggio clinico e lo studio potrebbe quindi configurarsi come il “canto del cigno” della gloriosa molecola. Lo studio non è comunque di facile lettura, soprattutto in considerazione del fatto che i risultati del sottogruppo di pazienti sottoposti ad angioplastica coronarica non sono in linea con quelli della popolazione generale.
L’attenta analisi di due esperti come Diego Ardissino e Giuseppe Patti ci offre una preziosa guida all’interpretazione dei risultati. Ardissino esprime un giudizio tutto sommato positivo sullo studio, ma sottolinea i limiti della molecola, ponendo l’accento sulla variabilità interindividuale della risposta al farmaco, che è inevitabilmente legata a fattori genetici e quindi modificabile solo in parte dall’aumento della dose. Non rinuncia poi ad una velata critica al “credo” della doppia dose di carico di clopidogrel, frutto non solo della medicina basata sull’evidenza, ma probabilmente anche di quella, meno scientifica, basata sulla consuetudine e sulla pratica clinica. Patti interpreta invece il ruolo dell’antagonista, mettendo in evidenza le limitazioni, soprattutto statistiche e metodologiche, dell’analisi del sottogruppo trattato con angioplastica coronarica.
In sostanza un’attenta lettura di questo “processo” offre non solo una preziosa guida all’interpretazione dei risultati, ma anche una panoramica dei limiti attuali e delle prospettive future della terapia con clopidogrel. •

editoriale



Misurare la risposta al clopidogrel: l’illusione di poter personalizzare la terapia antiaggregante di ogni paziente
L’editoriale di Marco Cattaneo è un raro esempio di sintesi, chiarezza espositiva e decisione nel dare un messaggio diretto al lettore e alla comunità scientifica. L’argomento è uno di quelli che ha generato maggiori spunti di discussione negli ultimi anni: la resistenza al clopidogrel. La possibilità di misurare l’aggregabilità piastrinica ha offerto l’illusione di poter personalizzare la terapia antiaggregante per ogni singolo soggetto con un semplice test eseguito al letto del paziente. Cattaneo ci mette bruscamente di fronte all’evidenza scientifica mostrandoci i risultati del recente studio GRAVITAS; in sostanza, l’identificazione dei pazienti “resistenti” al clopidogrel con il VerifyNow e il loro trattamento con alte dosi di clopidogrel non solo non migliora la prognosi dei pazienti “resistenti” rispetto alla terapia standard, ma determina anche uno spreco di risorse economiche. Cosa dobbiamo quindi aspettarci dai prossimi studi? Avremo davvero risultati migliori disegnando nuovi trial che prevedano dosaggi ancora maggiori di clopidogrel con l’utilizzo di più test contemporaneamente? Oppure sarebbe più conveniente confrontare la terapia con clopidogrel, più o meno personalizzata, con le nuove tienopiridine? Questi sono i quesiti che Cattaneo pone al termine del suo editoriale e la sua personale opinione emerge in maniera chiara e decisa.

rassegne




Parole che usiamo ma non conosciamo:
le novità dal Web per l’informazione in cardiologia
Web 2.0, blog, podcast, social network e social media sono parole che fanno parte del vocabolario di ciascuno di noi ma a cui non tutti, probabilmente, riescono ad attribuire una precisa definizione. La rassegna di Eugenio Santoro et al. ha il pregio di partire proprio dalla definizione di questi termini per poi mettere in risalto la semplicità d’uso di questi strumenti e le numerose opportunità che offrono soprattutto dal punto di vista formativo. 
La cardiologia sembra essere una tra le aree mediche dove tali strumenti sono stati più efficacemente introdotti. Attraverso queste tecnologie, numerose immagini, video, diapositive, articoli scientifici, riassunti di comunicazioni scientifiche, informazioni su sperimentazioni cliniche e altri materiali formativi vengono distribuiti tra i cardiologi, spesso riuniti in social network e blog nei quali tali contenuti sono condivisi e discussi.
La rassegna di Santoro et al. sottolinea quindi il passaggio da un modo passivo di ricevere informazione ad un approccio attivo che consente di ricevere, elaborare, condividere e discutere l’informazione con altri colleghi, privilegio, fino a poco tempo fa, solo di chi si recava personalmente a meeting e congressi.




La genetica che ci aiuta ad usare meglio
le statine
La rassegna di Gregory Dendramis offre interessanti spunti di riflessione facilmente comprensibili anche per il cardiologo che non possiede una profonda conoscenza della genetica medica. La risposta al trattamento con statine può avere per esempio una variabilità individuale da imputare ad un’isoforma dell’enzima HMG-CoA reduttasi, denominata HMGCRv1, che presenta un’alterazione dell’attività enzimatica e della sensibilità alle statine rispetto all’isoforma classica. In pratica, nei pazienti con isoforma alterata, il dosaggio di statine da assumere per raggiungere il target terapeutico sarà maggiore, con conseguente aumentata probabilità di sviluppare effetti collaterali.
E sono proprio gli effetti collaterali delle statine ed in particolar modo la miopatia, ad essere stati associati a polimorfismi genetici; uno studio recente mostra come più del 60% dei casi di miopatia da statine possa essere attribuito a polimorfismi del gene
SLCO1B1.
Dendramis ci ricorda che i valori target di colesterolo LDL da raggiungere nei pazienti con malattia coronarica sono sempre più bassi, inducendo il cardiologo ad usare dosaggi sempre più aggressivi di statine con un’inevitabile aumentata incidenza di effetti collaterali; una tipizzazione genetica potrebbe quindi rivelarsi utile nel riconoscere i soggetti “resistenti” e quelli a maggior rischio di miopatia, permettendo così di prescrivere con maggior sicurezza la terapia con statine. •




Il delicato equilibrio del paziente anziano tra farmaci antitrombotici e rischio emorragico
L’impostazione di una terapia antitrombotica nel paziente anziano può risultare estremamente impegnativa ed il buon esito del trattamento dipende spesso dalla capacità di bilanciare il rischio trombotico e quello emorragico. Numerosi fattori contribuiscono ad aumentare il profilo di rischio di un paziente geriatrico; un aumento della reattività piastrinica, della tendenza alla coagulazione e della stasi ematica ed una ridotta tendenza alla fibrinolisi configurano chiaramente un aumento del rischio trombotico. I farmaci da somministrare possono inoltre presentare variazioni farmacocinetiche e farmacodinamiche, ampiamente descritte nella popolazione anziana; se a questo si somma il rischio di interazioni farmacologiche, non trascurabile
in soggetti che quasi sempre assumono una politerapia, risulta evidente quante variabili debbano essere tenute in considerazione per un corretto approccio terapeutico.
La rassegna di Davide Capodanno et al. analizza le indicazioni ed i rischi dei farmaci antiaggreganti e anticoagulanti nei soggetti anziani, specificando per ogni singola molecola quali sono le evidenze scientifiche a disposizione e quali le raccomandazioni delle linee guida.
Gli autori, correttamente, sottolineano la mancanza di studi specifici su questa popolazione, che risulta spesso esclusa dai trial clinici randomizzati; questo produce inevitabilmente raccomandazioni non specifiche delle linee guida per questa categoria di pazienti, lasciando al medico una certa libertà di movimento. Lo sviluppo di nuovi farmaci antitrombotici con un profilo di sicurezza più favorevole, come gli inibitori diretti della trombina e gli inibitori del fattore Xa, rappresenta un’importante prospettiva terapeutica per questa categoria di pazienti, sempre che l’efficacia e il profilo di sicurezza di questi farmaci vengano testati in studi clinici randomizzati coinvolgenti questa fascia di popolazione. •

studio osservazionale




Cellule staminali: quali? come?
per quali pazienti? Uno studio originale ed ambizioso cerca di fare maggiore chiarezza sull’argomento
Nel lavoro di Cosmo Godino et al. troviamo un’ampia parte introduttiva in cui vengono messe in risalto le problematiche della terapia cellulare cardiaca. In primo luogo l’eterogeneità dei pazienti da trattare: ci sono almeno tre diverse categorie di candidati a ricevere il trattamento; quelli con infarto miocardico, quelli con angina cronica refrattaria e quelli con scompenso cardiaco. Anche se le cellule staminali possono essere suddivise in due grandi gruppi, quelle embrionali e quelle che derivano dai tessuti adulti, i sottotipi delle staminali adulte sono numerosi; gli studi condotti finora presentano quindi il grosso limite di aver utilizzato tipologie cellulari diverse. La via di somministrazione delle cellule (endovenosa, intracoronarica o intramiocardica) rappresenta un ulteriore motivo di incertezza oltre al fatto che resta ancora da stabilire quale metodica di valutazione non invasiva sia la più attendibile nella determinazione del beneficio funzionale.
Il lavoro di Godino et al. ancora in fase di arruolamento, prende in considerazione i pazienti con angina refrattaria alla terapia convenzionale ed ha l’obiettivo di valutare la sicurezza, la fattibilità e l’efficacia dell’iniezione intramiocardica di cellule staminali midollari mononucleate in toto oppure specificatamente CD34+. Anche se il numero di pazienti arruolati è per il momento esiguo (10 soggetti), i risultati preliminari sembrano incoraggianti, mostrando una netta riduzione degli episodi anginosi in almeno la metà dei pazienti nel follow-up a 6 mesi, con concomitante miglioramento del quadro scintigrafico all’analisi qualitativa e quantitativa.
Il protocollo di ricerca sperimentale di Godino et al. è il primo nel suo genere in Italia e, visti i risultati preliminari, merita di essere seguito con grande attenzione. •

casi clinici




Un caso di teratoma intrapericardico neonatale: quando la stretta collaborazione tra i diversi specialisti permette una gestione ottimale della malattia
I teratomi cardiaci, in particolar modo quelli intrapericardici, sono piuttosto rari. Antonio di Coste et al. ci segnalano un caso di teratoma intrapericardico diagnosticato alla trentottesima settimana di vita intrauterina tramite esame ultrasonografico prenatale. La massa, che presentava una stretta connessione con l’aorta ascendente e generava un’importante compressione delle sezioni cardiache destre, è stata rimossa con successo mediante intervento cardiochirurgico effettuato 7 giorni dopo la nascita. L’esame istologico della massa non ha fortunatamente rilevato cellule del sacco vitellino, la cui presenza si associa ad una prognosi peggiore di questo tipo di malattia. Al follow-up ad 1 mese il neonato non presentava sintomi di rilievo e a 3 mesi dall’intervento la curva di crescita appariva regolare.
Gli autori sottolineano l’importanza della diagnosi prenatale e della stretta collaborazione tra ginecologi, neonatologi intensivisti e chirurghi al fine di garantire una gestione ottimale di casi relativamente complessi come questo.




Dalla puntura di zecca al blocco atrioventricolare: l’importanza di sospettare la diagnosi
Luca Bacino et al. presentano un caso di blocco atrioventricolare completo secondario ad infezione da Borrelia burgdorferi, regredito dopo adeguata terapia antibiotica. La diagnosi di malattia di Lyme può risultare relativamente semplice in presenza dei classici segni come la tipica lesione maculo-papulare localizzata alla coscia, all’inguine o all’ascella (erythema migrans) o le caratteristiche mialgie e artralgie migranti. Nei casi, come quello riportato, in cui l’unico segno della malattia è rappresentato dal blocco atrioventricolare, la diagnosi può non essere banale; ecco allora emergere l’importanza di un’accurata indagine anamnestica per capire se il paziente può essere stato esposto al rischio di puntura di zecca. Anche l’aumento degli indici di flogosi, spesso considerato aspecifico, deve invece suscitare attenzione e indirizzare il sospetto diagnostico che sarà poi confermato dalla determinazione anticorpale anti-Borrelia. La tempestività della diagnosi è cruciale in casi come questo, in quanto un’adeguata terapia antibiotica permette di ottenere, in buona parte dei casi, una rapida e completa risoluzione del blocco atrioventricolare evitando così l’impianto di un pacemaker definitivo. •

documento di consenso




I pazienti che non inviamo a riabilitazione cardiologica: quando le evidenze ci sono ma non vengono applicate
In questo documento di consenso ANMCO/IACPR-GICR, Cesare Greco et al. ci mettono di fronte ad uno di quei casi in cui la medicina basata sulle evidenze non viene propriamente applicata: in Italia esiste infatti una netta contraddizione tra l’esistenza di indicazioni generalizzate alla riabilitazione cardiologica, contenute nelle linee guida, e la realtà di un ricorso solo episodico a questo percorso assistenziale. La cardiologia attuale impiega indubbiamente maggiori risorse nella gestione della fase acuta piuttosto che di quella post-acuta o cronica delle malattie, anche se la riabilitazione cardiologica ha dimostrato di possedere un rapporto costo/efficacia molto favorevole sia dopo un evento coronarico che dopo un episodio di scompenso, in quanto in grado di migliorare la prognosi riducendo le riospedalizzazioni e quindi le spese per l’assistenza.
Eclatanti sono i risultati dello studio ISYDE-2008: più della metà dei pazienti che afferiscono ad un centro di riabilitazione cardiologica proviene dalle cardiochirurgie mentre meno del 9% arriva in riabilitazione dopo una sindrome coronarica acuta.
Il documento ci offre una guida dettagliata alla selezione dei pazienti da inviare a riabilitazione, analizzando separatamente i soggetti provenienti da un intervento di cardiochirurgia, quelli con recente sindrome coronarica acuta, quelli affetti da scompenso ed i portatori di dispositivi elettrici. Applicando questi criteri, ogni anno circa 30 000 cardio-operati, 30 000 pazienti reduci da infarto miocardico acuto e 35 000 pazienti con recente episodio di scompenso dovrebbero iniziare un percorso riabilitativo. La capacità ricettiva dei 190 centri riabilitativi in Italia non è chiaramente in grado di far fronte a questa domanda; risulta quindi fondamentale l’inizio di un’opera di modifica ed ammodernamento dei percorsi assistenziali della cardiologia riabilitativa che dovrà essere pianificata dalle Società Scientifiche in accordo con le autorità regolatorie regionali. •