Le unità di terapia intensiva cardiologica
e l
evoluzione naturale
Marco Tubaro
UTIC, Dipartimento Cardiovascolare, Ospedale San Filippo Neri, Roma

Dopo il lavoro di Casella et al.1 sull’epidemiologia e la strategia di cura nei pazienti ricoverati presso le unità di terapia intensiva cardiologica (UTIC) italiane, questo lavoro di Oltrona Visconti et al.2 analizza in dettaglio la distribuzione e l’appropriatezza dei ricoveri in UTIC, come anche l’utilizzo di risorse per la cura dei cardiopatici acuti. I dati raccolti sono ben rappresentativi della realtà clinica italiana, con 6986 pazienti arruolati in un periodo di 14 giorni (7-20 aprile 2008) in 322 UTIC italiane (l’81% di tutte le UTIC presenti in Italia).
Il quadro delle UTIC italiane evidenziato dal BLITZ-3 conferma, nella sua globalità, come le nostre UTIC siano, per diversi aspetti, ancora lontane da quanto consigliato dai documenti della Società Europea di Cardiologia (ESC)3, sia in termini di risorse disponibili sia in termini gestionali. In particolare, deve essere sottolineato come metà delle UTIC siano collocate in ospedali senza emodinamica (UTIC tipo A nel BLITZ-3): queste UTIC si trovano ad affrontare un carico assistenziale rilevante, con scarsi mezzi e probabilmente altrettanto scarso personale (non abbiamo informazioni, in questo lavoro, sullo staff medico e infermieristico delle UTIC). Infatti, non solo i pazienti nelle UTIC di tipo A hanno alcune caratteristiche personali di gravità, ma in queste UTIC si ricovera anche un numero non trascurabile di pazienti. A fronte di queste necessità assistenziali, queste UTIC fanno meno ricorso a procedure ad elevato contenuto tecnologico e ricoverano un numero minore di pazienti per singola struttura; inoltre, il ricorso al trasferimento interospedaliero, necessario quasi sempre solo per le UTIC di tipo A, è largamente insufficiente [solo il 23% degli infarti miocardici con sopraslivellamento del tratto ST (STEMI) è stato trasferito, nel BLITZ-3].
La situazione a livello nazionale delle reti per l’infarto è molto deficitaria (anche se con numerose lodevoli eccezioni di real­tà molto ben funzionanti)4, evidenziandosi infatti problematiche evidenti sia a livello del trasporto primario (solo il 22% dei pazienti è stato soccorso dal 118) sia di quello secondario, in quasi tutte le regioni lasciato all’iniziativa delle singole istituzioni cardiologiche.
Bisogna peraltro sottolineare come alle mancanze delle reti si associno anche le mancanze delle nostre singole UTIC, visto che il 50% degli STEMI ricoverati nelle UTIC di tipo A non viene riperfuso, una delle percentuali più basse in Europa5 (e comunque anche il 32-33% degli stessi STEMI nelle UTIC tipo B e C). Queste percentuali confermano la posizione difficile del nostro Paese nel ranking europeo5, dove ci sono diversi paesi con percentuali di riperfusione degli STEMI tra l’80% e il 90%. Anche i dati dei più recenti registri dell’ESC (Euro Heart Survey ACS III e ACS Snapshot Registry), per quanto meno rappresentativi in termini epidemiologici, confermano le percentuali molto maggiori di riperfusione in altre zone d’Europa6, fatta eccezione per l’Europa Centrale e Orientale7.
Il nostro dato nazionale è sorprendente anche considerando la grande tradizione delle UTIC italiane nell’applicazione della terapia trombolitica negli STEMI, l’eccellente lavoro svolto dall’Area Emergenza-Urgenza dell’Associazione Nazionale Medici Cardiologi Ospedalieri (ANMCO) fin dalla sua fondazione e i recenti dati favorevoli delle strategie combinate farmaco-invasive. Soprattutto i registri francesi8,9 hanno chiaramente sottolineato i risultati particolarmente favorevoli dell’integrazione della trombolisi (in gran parte preospedaliera) con una successiva (nelle 24h) coronarografia ed eventuale angioplastica; questa indicazione è stata confermata sia dalle linee guida ESC sullo STEMI10, sia da quelle molto recenti sulla rivascolarizzazione11.
Molte delle risorse delle nostre UTIC sono sottoutilizzate. Oltre al numero basso di ricoveri ospedalieri, vi è una quota non trascurabile (20%) di pazienti a bassissima mortalità (0.2%) che, con ogni probabilità, non avrebbero bisogno di un ricovero in UTIC. La durata della degenza è particolarmente lunga, con una mediana di 4 giorni per tutte le patologie più frequenti, senza particolare relazione né con la gravità delle patologie né con la complessità delle cure. Il fatto che metà dei pazienti rimanga nelle nostre UTIC per più di 4 giorni deriva da una parte dalla carenza di terapie subintensive (che invece sono sempre raccomandate, con un rapporto di 3:1 di posti letto rispetto alle UTIC) 3 e dall’altra dalla mancanza di percorsi diagnostico-terapeutici condivisi e non erratici.
Una nota positiva deve invece essere dedicata all’outcome di questi pazienti, visto che la mortalità in UTIC per STEMI nel BLITZ-3 (5.1%) si confronta in modo positivo, sia pure indirettamente, con quella intraospedaliera per la stessa patologia dell’Euro Heart Survey ACS III (7.1%)6 e dell’ACS Snapshot Registry (8.5%)7.
In conclusione, due considerazioni principali devono essere fatte, l’una relativa alle reti e l’altra relativa alle UTIC. Le due strategie principali delle reti per gli STEMI sono quella degli “STEMI receiving centers” e quella di tipo “Hub & Spoke”. Nel primo modello, il paziente viene soccorso da un’ambulanza attrezzata dei sistemi di emergenza nel sito stesso dove si verifica l’inizio della patologia: viene effettuata una diagnosi on site e il paziente viene trasportato direttamente all’ospedale in grado di effettuare h24 un’angioplastica primaria, evitando eventuali ospedali intermedi non adeguatamente attrezzati. L’eventuale somministrazione di terapia trombolitica è effettuata direttamente dal personale dell’ambulanza, sulla base di alcuni parametri principali: livello di rischio di base del paziente, tempo trascorso dall’esordio dei sintomi e prevedibile ritardo nella riperfusione legato all’angioplastica primaria 12,13. Questo modello, che in Europa è utilizzato, ad esempio, dalla Repubblica Ceca, dalla Slovenia e dalla Polonia, è in grado di ottenere le percentuali più elevate di riperfusione nello STEMI5.
Peraltro, abbiamo visto, nel BLITZ-3, che solo una piccola minoranza di pazienti in Italia utilizza il 118 in caso di ricovero in UTIC: è quindi impensabile, almeno nel nostro Paese e almeno alle condizioni attuali, proporre come unica soluzione un modello tipo “STEMI receiving centers”, poiché molti pazienti con sindrome coronarica acuta si presenterebbero ugualmente con i propri mezzi agli ospedali periferici a loro più vicini. In questo caso deve essere invece operativo un sistema “Hub & Spoke”, che adotti un trasporto secondario rapido verso gli ospedali con emodinamica h24 (Hub), preceduto o meno dalla somministrazione di terapia trombolitica in base ai parametri descritti in precedenza. La tempistica del trasporto può variare (rapido in caso di angioplastica primaria o di salvataggio, con più tempo a disposizione in caso di angioplastica sistematica), ma non certo la sua necessità. Sarà cura degli accordi interaziendali di strutturare o meno un trasporto “di ritorno” dei pazienti non complicati verso i centri periferici di provenienza, soluzione che risponde non certo ad esigenze scientifiche, ma certamente a difficoltà organizzative e di accoglienza dei pazienti nei centri Hub.
Quanto alla seconda considerazione, che riguarda il destino delle UTIC italiane, abbiamo una “modesta proposta” del decisore pubblico, già operativa in alcune realtà regionali, che vede, attraverso l’istituzione degli ospedali “per intensità di cura”, la convergenza, fusione e quindi scomparsa delle UTIC all’interno di terapie intensive generaliste, prive del sostegno clinico e della competenza del dipartimento d’organo (che ha consentito finora, in cardiologia, una delle maggiori riduzioni di mortalità e morbilità della storia recente della medicina). Non si può non sottolineare come questa modifica sostanziale dell’organizzazione della cura sia basata su considerazioni “ragionieristiche” del conto economico degli ospedali, senza tenere conto del “costo globale” della malattia legato alla qualità delle cure e all’outcome a lungo termine: i dati di esito dei pazienti cardiopatici affidati ad altri specialisti sono troppo noti per dover essere ulteriormente sottolineati in questa sede.
È peraltro vero che anche i cardiologi delle nostre UTIC devono operare rapidamente una trasformazione importante delle loro strutture e di loro stessi, accreditandosi come “intensivisti” in cardiologia14 e occupandosi, quindi, di tutta la terapia intensiva cardiologica (e non solo di quella coronarica). Le UTIC di tipo A potranno continuare a svolgere il loro ruolo-chiave, ma solo in una struttura di rete che deve essere considerata vincolante ed organizzata al meglio dai cardiologi e dagli enti amministrativi interessati. Solo la combinazione di un’organizzazione di rete e dello sviluppo di competenze intensivistiche potrà fornire ai cittadini una qualità elevata e l’accesso equanime alle cure, insieme a una riduzione della morbilità e della mortalità delle gravi patologie cardiovascolari. Questo “cambio di paradigma” troppe volte mancato vede come indispensabili alcune condizioni: mancato accreditamento di UTIC non collegate funzionalmente con emodinamiche e cardiochirurgie h24, attraverso accordi interaziendali realizzabili nel breve periodo; ristrutturazione dei pagamenti sulla base del percorso globale di cura del cardiopatico acuto, senza penalizzazione dei centri periferici; attente valutazioni di efficacia ( audit) che comprendano gli esiti globali della qualità delle cure, nel breve ma anche nel lungo periodo e non solo il conto economico degli ospedali.
Lo studio BLITZ-3 costituisce uno degli strumenti conoscitivi chiave per questo percorso e ci dobbiamo congratulare sinceramente con gli autori per questo risultato.

bibliografia
1. Casella G, Cassin M, Chiarella F, et al.; BLITZ-3 Investigators. Epidemiology and patterns of care of patients admitted to Italian intensive cardiac care units: the BLITZ-3 registry. J Cardiovasc Med 2010;11:450-61.
2. Oltrona Visconti L, Scorcu G, Cassin M, et al.; Ricercatori del BLITZ-3. Distribuzione e appropriatezza dei ricoveri ed utilizzo di risorse nelle unità di terapia intensiva cardiologica italiane. Lo studio BLITZ-3. G Ital Cardiol 2011;12:23-30.
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13. Tarantini G, Razzolini R, Napodano M, Bilato C, Ramondo A, Iliceto S. Acceptable reperfusion delay to prefer primary angioplasty over fibrin-specific thrombolytic therapy is affected (mainly) by the patient’s mortality risk: 1h does not fit all. Eur Heart J 2010;31:676-83.
14. Working Group on Acute Cardiac Care, European Society of Cardiology. Curriculum for training in intensive, acute cardiac care in Europe. Available at http://www.escardio.org/communities/Working-Groups/acute-cardiac-care/ Documents/ESC-Curriculum-Training-Intensive- ACC-europe.pdf [accessed November 8, 2010].