Ospedale per intensità di cura:
scegliere leggero, un compito pesante
Francesco Maria Bovenzi
U.O. di Cardiologia, Dipartimento Cardio-Respiratorio, Ospedale Campo di Marte, Lucca

L’articolo di Nicolosi su questo numero del Giornale offre l’opportunità per un più ampio dibattito sui costi e sui possibili benefici di una riorganizzazione del sistema sanitario per intensità di cura.
Questo nuovo paradigma della complessa organizzazione ospedaliera prende spunto dal modello organizzativo e culturale della Toyota, noto come Toyota Production System, realizzato già in alcune realtà internazionali e nazionali1. In pratica, lo sforzo delle istituzioni tende a realizzare un sistema assistenziale più fluido, privo di vere e proprie divisioni tra reparti di specializzazione (sia fisiche sia concettuali), che unifica l’erogazione dei servizi per limitare gli sprechi e gli errori. L’affannosa ricerca di soluzioni organizzative più innovative, “leggere” (lean), se da un lato è sostenuta dalle dilaganti inappropriatezze, duplicazioni e palesi inefficienze del “sistema salute”, dall’altro è indubbiamente giustificata dalla precaria sostenibilità economica, dal progressivo invecchiamento della popolazione e dalla crescente complessità clinica e organizzativa2.
La parola lean richiama l’idea di leggerezza e flessibilità, ma paradossalmente in Sanità la sua applicabilità risulta eticamente problematica per le potenziali conseguenze, legate nel breve e lungo periodo, alla “pesante” incapacità percettiva dei potenziali danni sociali causati da una sua implementazione non verificata. Ci si chiede, perché offrire un sistema omogeneo, più trasversale se la scienza medica evolve verso competenze dedicate e conoscenze sempre più complesse e perché la salute in molti paesi resta di pertinenza primariamente pubblica? L’azienda ospedaliera è mediamente un’azienda a scarso rendimento, proprio perché è difficile prevenire i market failure che in Sanità hanno implicazioni di ordine etico e sociale. In questo campo, interventi “pesanti” e tagli potrebbero rendere inefficiente la tutela dei diritti della salute dei cittadini, innescando dis­eguaglianze non giustificate dalla sola logica del risparmio, così il limite economico diventa piano piano una questione etica dove quello che conta non sono i risultati ma il rispetto dei limiti.
La medicina si è enormemente sviluppata negli ultimi decenni, diventando arte fortemente specializzata, in continua evoluzione, sempre più sofisticata, tecnologica e in costante miglioramento. Osserviamo, in questo progresso, una linearità di sviluppo nell’attività scientifica di ricerca, che svolge un ruolo primario nel produrre evidenze, che rendono sempre più evoluta la scienza medica, le sue conoscenze, ma più complesso il rapporto tra medico e paziente. Le attese del cittadino sono cresciute in termini di qualità delle cure, di sicurezza ed anche di comfort alberghiero; per questo, una delle cause della crescente sfiducia è anche nella vetustà delle nostre strutture ospedaliere3. L’ospedale rappresenta ancora oggi il primo punto di riferimento del cittadino malato, come testimoniano i dati più recenti sull’ospedalizzazione con 53 milioni di giornate di degenza per anno in Italia; come se ogni italiano passasse un giorno l’anno in ospedale4. Nonostante queste critiche premesse, appare lodevole lo sforzo di comprendere, di ricercare soluzioni ad un “vecchio” ospedale non più in grado di offrire efficienza, nonostante i suoi crescenti costi assistenziali, ma sarebbe un grave errore disattendere il progresso fin qui conseguito, non continuare ad applicarlo, solo perché economicamente insostenibile. All’ospedale moderno si chiede di mettere al centro la persona e le sue necessità, di aprirsi al territorio e di integrarsi con la comunità sociale.
Una risposta tangibile, pur molto discutibile nel metodo, è venuta dalla Regione Toscana che, prima in Italia, ha dato il via con la legge Regionale 40/2005 al piano di riordino ospedaliero prevedendo una grande innovazione non solo di natura edilizia, ma per l’appunto anche gestionale. La nuova organizzazione prevede una razionale valorizzazione delle risorse, ponendosi come definizione e scelta di appropriatezza organizzativa, il cui nuovo assetto è funzionale a garantire qualità ed efficienza di un sistema centrato sul malato 5. Si tratta di una sorta di rivoluzione metodologica e organizzativa, la cui filosofia fonda proprio sul moderno lean thinking (pensare snello), che prevede un sistema flessibile, competitivo, di lotta agli sprechi, auspica un utilizzo di risorse strettamente necessarie. Con il progetto “Ospedali per intensità di cura” si favorisce un approccio multidisciplinare, che supera una visione “d’organo”, di reparto monodisciplinare e di dipartimento omogeneo. Attraverso la realizzazione di moduli/aree di ricovero “aperte e variabili”, graduati per intensità di bisogno assistenziale, si pensa che sarà possibile superare le criticità legate alla gestione del posto letto. Non dovendosi necessariamente “costituire uno specifico reparto”, si rende più facile il superamento, specie negli ospedali medio-piccoli, del principale ostacolo alla costituzione di poli specialistici cui affidare, secondo criteri di appropriatezza clinica, la gestione del paziente.
L’intero piano di programmazione sanitaria della Toscana è vincolato al nuovo modello di intensità di cura ed è supportato da un investimento di circa 450 milioni di euro per la costruzione di quattro grandi ospedali. Dunque, il modello ruota sull’ineludibile centralità del malato, garantita da nuove figure professionali definite tutor, ma capovolge la tradizionale organizzazione ospedaliera fondata sulle specialità. La sfida al nuovo paradigma del concetto di cura, quindi, parte dalla cancellazione dell’identità strutturale dei differenti reparti, accorpati funzionalmente in grandi aree più tecnologiche e multidisciplinari, in cui le componenti cliniche vengono disgiunte da quelle organizzative, proprie delle cosiddette piattaforme produttive (dipartimenti, blocchi, ambulatori).
Il primo grande problema è che lo spazio fisico di cura delle unità di terapia intensiva cardiologica (UTIC) viene ignorato, accorpato in grandi aree intensive e subintensive, spazzando via le evidenze maturate in 50 anni di ricerca clinica applicata6. Una simile scelta su larga scala distorce l’attuale realtà scientifica, appesantisce le responsabilità sociali, anche perché non si è mai avviato un confronto e una critica verifica su piccola scala dei cambiamenti organizzativi e di ruolo. Un ridimensionamento non concordato e non pianificato dell’organizzazione e tipologia delle UTIC significherebbe la perdita di un grande patrimonio assistenziale e culturale della Cardiologia tutta. Considerata la complessità delle clinical competence, necessarie nella cura del cardiopatico acuto, è facile immaginare le conseguenze sulla prognosi dei malati in un luogo di cura che potrebbe risultare non idoneo. Eppure, è noto come la rete delle Cardiologie italiane ha sostenuto, con grande efficienza ed efficacia in termini di produzione di salute e di vite salvate, il peso epidemiologico delle cardiopatie7.
È pur vero che sarebbe un grave errore mostrarsi contrari a priori al cambiamento, in qualunque sua forma. La staticità non fa parte della natura e anche le società, i contesti sociopolitici, culturali micro e macroeconomici cambiano continuamente. Allo stesso modo, la comunità medica dovrebbe partire dall’evoluzione della scienza e dovrebbe valutare con critica attenzione il paradigma lean del modello proposto di intensità di cura, al fine di capire se questa possibilità di cambiamento culturale sia un reale progresso in termini di salute e vite salvate. Entrando nello specifico, da medico mi chiedo come possa essere accettata e condivisa una riorganizzazione che viene sancita da una legge regionale, proposta dall’alto e senza concrete evidenze a supporto di efficacia in termini di vite salvate o risultati clinici. Data l’entità formativa e l’impatto reale, non solo economico, dell’attesa rivoluzione, è necessario riflettere se sia stato corretto legare la scelta ad una disposizione di legge, dimenticando lo stato dell’arte delle evidenze e la reale centralità dei malati da assistere. Non vi è dubbio che i peggiori guai della Sanità sono cominciati quando i politici hanno permeato fortemente il sistema salute. Detto altrimenti, la cura e la tutela della salute dell’uomo è ben altra cosa che produzione manifatturiera.
Tuttavia, se da un lato bisogna stare attenti a non apparire corporativi, dall’altro non bisogna scivolare in un’organizzazione dove la ricerca e il servizio specialistico sono sopraffatti da semplicistici imperativi organizzativi e finanziari. Secondo molti esperti di economia sanitaria, la risposta agli sprechi potrebbe essere banale, basta tagliare ciò che non funziona, come le scelte persistentemente inappropriate, ma per fare questo serve diffondere la cultura della qualità delle cure, quella basata sulla soddisfazione del paziente e sulla “concorrenza dei risultati di salute”. Un sistema cresciuto sulla “concorrenza dell’offerta” necessita di una verifica, di controlli attraverso indicatori, validazioni scientifiche e misurazioni continue 8. Difficile far accettare una logica del sistema di miglioramento continuo della qualità. Dunque, è evidente che l’implementazione di un modello per intensità di cura sia più semplice, perché resetta il sistema, ma allo stesso tempo si presenta come un grande rischio (economico, assistenziale) e una fragile opportunità. Auspicare il Dipartimento Cardiovascolare, proposto nel documento federativo9 e nei Quaderni del Ministero della Salute10, rischia di essere un ottimistico esercizio che non prende in considerazione le differenti e dilaganti realtà organizzative. Purtroppo le nuove organizzazioni per intensità di cura ignorano il Dipartimento d’organo, ma ancor peggio, danno scarso rilievo ai dipartimenti, che non rappresentano uno snodo strategico del sistema, ma un luogo virtuale più gestionale, che clinico. Una rivoluzione culturale di simile portata ci pone nella difficile gestione di un efficace governo del cambiamento in atto. Non è stato facile per i cardiologi toscani, sulla base delle riflessioni esposte, governare la programmazione regionale, anche in termini di difesa di ruoli, responsabilità e competenze, cercando di far comprendere l’importanza di una più innovativa e funzionale logica di intensità di cura dipartimentale, che non prescinda dal porre il cuore del paziente al centro del suo percorso assistenziale. È assolutamente vero che l’adozione di una cultura organizzativa lineare, di appropriatezza delle scelte, di caccia agli sprechi ed errori, non è assolutamente un male di per sé, ma occorre prima conoscere a fondo e misurare il presente prima di avviare un cambiamento. Vale la pena ripetere che continua a pesare la carenza di dati a supporto della nuova e complessa organizzazione: paradosso di un miglioramento senza verifica. Quello che tutti ci saremmo auspicati sarebbe stato l’avvio di una sperimentazione pilota fatta in poche real­tà, analizzata, confrontata con dati oggettivi storici, condivisa e contestualizzata per le differenti discipline, secondo organizzazioni dipartimentali per le varie tipologie di ospedali, magari verificata in rete e per bacino d’utenza, testando criticamente l’impatto con le organizzazioni territoriali e di volontariato, prima di essere implementata su larga scala. Nel disattendere queste riflessioni necessariamente critiche, a farne le spese, più che l’intera Cardiologia sarà il cittadino, che vedrà ricondurre un’attesa risposta competente all’interno di altre aree di intervento, nel virtuoso percorso di un pericoloso ritorno al passato. Per concludere, proporre tout court un’organizzazione ospedaliera “leggera” è un compito difficile, ma che presto potrebbe mostrare tutto il suo insostenibile peso.
bibliografia
1. Berczuk C. The lean hospital. The Hospitalist 2008;12(6).
2. Katz JN, Turer AT, Becker RC. Cardiology and the critical care crisis: a perspective. J Am Coll Cardiol 2007;49:1279-82.
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4. ERA (Epidemiologia e Ricerca Applicata). Atlante 2008. Schede di dimissione ospedaliera per genere e USL. http://www.e-r-a.it.
5. Regione Toscana, Piano Sanitario Regionale 2008-2010. Aggiornamento ai sensi dell’art. 18, comma 3, e dell’art. 142, comma 3 della L.R. 40/2005. Bollettino Ufficiale della Regione Toscana n. 39 del 19 novembre 2008.
6. Hasin Y, Danchin N, Filippatos GS, et al.; Working Group on Acute Cardiac Care of the European Society of Cardiology. Recommendations for the structure, organization, and operation of intensive cardiac care units. Eur Heart J 2005;16:1676-82.
7. De Luca L, Lucci D, Bovenzi F, et al. 5° Censimento delle strutture cardiologiche in Italia. Federazione Italiana di Cardiologia - Anno 2005. G Ital Cardiol 2008;9(Suppl 1-5): 5S-83S.
8. Porter ME, Teisberg EO. How physicians can change the future of health care. JAMA 2007;297:1103-11.
9. Struttura e organizzazione funzionale della Cardiologia. G Ital Cardiol 2009;10(Suppl 3 al n 6):3S-81S.
10. Ministero della Salute. Quaderno n. 1 gennaio-febbraio 2010. Criteri di appropriatezza clinica, tecnologica e strutturale nell’assistenza alle malattie del sistema cardiovascolare. http://www.qua­der­nidellasalute.it.