Cardiologia di genere: il punto su peculiarità cliniche e fisiopatologiche nelle donne nel long COVID

Silvana Brigido1, Maria Teresa Manes2, Nadia Ingianni3, Francesca Lanni4, Ada Cutolo5, Maria Teresa La Rovere6, Daniela Pavan7, a nome dell’Area Cardiologia di Genere dell’Associazione Nazionale Medici Cardiologi Ospedalieri (ANMCO)

1Ambulatori Cardiologia, Ospedale “F. Jaia”, Conversano (BA)

2Cardiologia-UTIC, Spoke Paola Cetraro, Paola (CS)

3Cardiologia, ASP Trapani, Trapani

4U.O. Cardiologia-UTIC, AORN San Giuseppe Moscati, Avellino

5U.O.C. Cardiologia, Ospedale dell’Angelo, Venezia-Mestre

6Dipartimento di Cardiologia, Istituti Clinici Scientifici Maugeri IRCCS, Montescano (PV)

7Dipartimento Cardio-cerebro-riabilitativo, Azienda Sanitaria Friuli Occidentale, Pordenone

Long COVID is a clinical syndrome characterized by the persistence or development of symptoms due to COVID-19 at least 12 weeks after initial infection. More than 200 different symptoms have been ascribed to long COVID, the most common being fatigue, shortness of breath, and muscle weakness. Women have a three-fold higher risk of being diagnosed with long COVID, and the symptoms more often described are persistent weakness, chest pain, altered smell and taste, palpitations or muscle pain, as well as neurological, gastrointestinal and rheumatologic symptoms. Long COVID features are influenced by immune function, endothelial dysfunction and sex hormones. Moreover, it leads to systemic dysfunction, so various therapeutic strategies have been explored and still different trials are ongoing, mainly regarding anticoagulation and immuno-modulators. Nowadays the most quoted interventions are focused rehabilitation programs and pharmacological selected treatments in specifical cases. The aim of this review will be focusing the clinical and pathophysiological sex-related peculiarities to understand the different long COVID phenotypes and possibly address a better tailored approach and treatment.

Key words. Immune dysregulation; Long COVID; Pathophysiology; Women.

INTRODUZIONE

La pandemia COVID-19, oltre ad essere caratterizzata dall’eccezionale gravità in termini di morbilità e mortalità, ha avuto importanti ricadute sociali ed economiche. Ad oggi nel mondo si sono infettate oltre 769 milioni di persone, con oltre 6 milioni di vittime riportate, mentre in Italia sono stati registrati in totale 25 milioni di casi, con 191 000 decessi. I due anni di pandemia hanno permesso di raccogliere dati relativi ad una miriade di aspetti epidemiologici e clinici per caratterizzare alcune importanti differenze di presentazione e di outcome in diverse categorie di pazienti, così come l’eterogeneità emersa in relazione al sesso1.

In parallelo alla ridotta incidenza di nuovi casi di infezione da COVID-19, stiamo assistendo ad un progressivo incremento dei casi di sindrome post-COVID-19 o long COVID, che si configura pertanto come una nuova entità nosologica dai contorni ancora in parte sfumati, caratterizzata da grande variabilità di presentazione clinica e di durata di malattia, indipendentemente dal grado di sintomaticità dell’infezione acuta2.

DEFINIZIONI

Le sequele post-acute da SARS-CoV-2 (post-acute sequelae of SARS-CoV-2, PASC) o long COVID si distinguono in una forma con alterazioni organiche e in una forma senza alterazioni organiche (il vero PASC). Pertanto la diagnosi differenziale tra le due forme deve essere indirizzata all’esclusione di tutte le complicanze organiche cardiovascolari3.

Il National Institute for Health Care and Excellence (NICE) ha definito le PASC come una condizione in cui sintomi e segni sviluppati durante o dopo l’infezione da SARS-CoV-2 permangono oltre le 12 settimane, non spiegati da altra eziologia, molto simile a quella dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, che definisce le PASC come una condizione che occorre in soggetti con pregressa infezione da SARS-CoV-2 probabile o confermata, i cui sintomi che persistono da oltre 2 mesi non sono spiegati da diagnosi alternative4.

Indipendentemente dalla specifica definizione, è noto che anche pazienti asintomatici in fase acuta potranno comunque successivamente sviluppare PASC.

EPIDEMIOLOGIA

I dati globali suggeriscono che esistono differenze relate al sesso sia per quanto riguarda la fase acuta che le sequele5: mentre l’infezione acuta ha prognosi di malattia peggiore negli uomini (che presentano un rischio più elevato di infezione, maggiore probabilità di ospedalizzazione, peggiori esiti clinici e prognosi), le donne sembrano avere un rischio 3 volte maggiore di sviluppare il long COVID, ma solo fino a circa 60 anni6, quando il livello di rischio diventa simile. Oltre all’essere donne anche il fumo attivo e un indice di massa corporea più alto (>30 kg/m2) sembrano essere fattori di rischio per incorrervi.

Uno studio prospettico condotto su 201 pazienti a basso rischio7 ha valutato la compromissione multiorgano nell’ambito della sindrome post-COVID. L’età media di questi pazienti era 44 anni (range 21-71), il 71% costituito da donne, l’88% di popolazione caucasica, il 32% costituito da operatori sanitari; il 19% era stato ricoverato in ospedale con COVID-19. L’anamnesi includeva come fattori di rischio fumo (3%), asma (19%), obesità (20%), ipertensione (7%), diabete (2%) e precedenti malattie cardiache (5%). Il gruppo di controllo sano aveva un’età media di 39 anni (range 20-70), il 40% del quale era di sesso femminile. Di questi individui esaminati, il 60% (n = 120) aveva una sindrome post-COVID grave, con una prevalenza del sesso femminile (73%), nel 52% dei casi con difficoltà persistenti nell’intraprendere le normali attività.

Uno studio prospettico italiano8 ha arruolato un totale di 492 pazienti guariti da infezione da SARS-CoV-2, programmando follow-up clinici seriati con una mediana di 102 giorni dall’esordio dei sintomi, 79 giorni dalla guarigione clinica e 56 giorni dalla clearance virologica: i sintomi più comuni evidenziati erano sia fisici che psicologici, e le donne avevano un rischio 3 volte più alto di sviluppare long COVID.

Sigfrid et al.9 nello studio ISARIC, hanno analizzato 327 pazienti ricoverati per sintomi COVID-relati tra gennaio e ottobre 2020, quando non c’erano ancora protocolli stabiliti di trattamento dell’infezione. A distanza di 3 mesi dalla dimissione, il 55% dei pazienti dichiarava di non sentirsi completamente guarito dall’infezione, e nel 93% dei casi persistevano ancora dei sintomi, i più frequenti dei quali erano astenia e dispnea. Nel campione femminile (41% del totale, n = 135), le donne di età <50 anni avevano 2 volte più probabilità di avere affaticamento e 7 volte più probabilità di riportare dispnea rispetto agli uomini della stessa età, 7 mesi dopo la dimissione ospedaliera. La riduzione della capacità funzionale e il peggioramento della qualità di vita sono stati riscontrati equamente nelle varie fasce di età e in modo indipendente rispetto alla presenza di precedenti comorbilità, suggerendo che gli effetti a lungo termine dell’infezione da SARS-CoV-2 sono determinati da fattori diversi da quelli che predicono l’aumento della mortalità.

Munblit et al.10 hanno valutato 2649 sopravvissuti all’infezione da SARS-CoV-2 (età media 56 anni, 51% donne, n = 1353): il sesso femminile è risultato associato al più alto rischio di sintomi, in particolare di tipo dermatologico, fino a 7 mesi dopo il ricovero in ospedale.

SINTOMI

Il long COVID si caratterizza per una pletora di sintomi – ne sono stati caratterizzati oltre 200 – che interessano tessuti e organi a vario livello11. I più comuni sono astenia, dolore toracico e muscolare, cefalea, dispnea, anosmia, debolezza muscolare, febbre persistente, disfunzione cognitiva, tachicardia, caduta dei capelli, disordini intestinali e manifestazioni cutanee (Figura 1).




Le donne riportano più frequentemente astenia, dolore toracico, polipnea dopo l’esercizio, alopecia, diarrea, mialgia e palpitazioni12, mentre gli uomini hanno riportato una percentuale maggiore di perdita di peso13.

L’astenia è il sintomo in assoluto più frequente, riportato in più del 50% dei pazienti guariti dal COVID-19 a distanza di almeno 4 settimane dall’infezione acuta14. Nonostante alcuni gruppi di lavoro abbiano differenziato un precoce periodo post-acuto (4-12 settimane dopo l’infezione acuta) da un periodo cronico tardivo (>12 settimane dopo l’infezione acuta), non è chiaro se questa distinzione sia discriminante in relazione ai meccanismi fisiopatologici, alla valutazione clinica e alla gestione terapeutica15.

Un capitolo molto importante è quello relativo ai sintomi di tipo neuropsichiatrico: circa il 90% dei pazienti può potenzialmente sviluppare almeno un sintomo neuropsichiatrico nei 6 mesi successivi all’infezione, e tra questi la depressione è il più frequente16.

Rispetto ai pazienti maschi, le pazienti hanno mostrato una più alta percentuale di mialgia, cefalea e ansia, quest’ultima anche a distanza di 1 anno dall’infezione acuta. Frequenti anche i deficit mnemonici (la cosiddetta “brain fog”) caratterizzati da confusione mentale, perdita di concentrazione, disturbi della memoria e disturbi del sonno, e un complesso di sintomi meno frequente, identificato come una forma di encefalopatia mialgica/sindrome da stanchezza cronica (tipicamente secondaria a infezione da Epstein-Barr, citomegalovirus, Borrelia), come associazione di intolleranza all’esercizio con sintomi di nebbia cerebrale; questa sindrome è talora presente come triade, con compromissione della capacità funzionale in ambiente domestico o lavorativo superiore a 6 mesi, non alleviata dal riposo, malessere generale dopo sforzo e sonno non ristoratore17.

Sintomi di pertinenza cardiologica in relazione al sesso

I sintomi cardiologici più frequenti sono l’intolleranza all’esercizio, il dolore toracico, la dispnea e la tachicardia.

Le donne di età <50 anni hanno una probabilità 5 volte maggiore degli uomini di percepire la persistenza dei sintomi, 2 volte maggiore di riportare un peggioramento progressivo dell’astenia e 7 volte maggiore rispetto al sesso maschile di riportare il sintomo dispnea18.

In una recente casistica italiana19 sono stati reclutati 223 pazienti, 89 donne e 134 uomini, con recente infezione da SARS-CoV-2, seguiti per un follow-up medio di 5 mesi dalla fase acuta: le donne avevano maggior probabilità di sviluppare dispnea, affaticabilità, dolore toracico, palpitazioni e disturbi del sonno, ma non mialgia e tosse.

Per cercare chiarezza nella possibile eziologia dei sintomi cardiovascolari nelle PASC, l’American College of Cardiology ha proposto una classificazione che differenzia note entità cardiovascolari che si possono presentare sia nell’immediato post-acuto che nella cronicizzazione del COVID-19 (PASC-CVD) da sintomi cardiovascolari che perdurano oltre l’acuzie e non sono pienamente spiegati dai routinari test diagnostici (PASC-CVS)11. Differenziare la PASC-CVD dalla PASC-CVS può essere di ausilio nell’indirizzare il paziente allo specialista nell’ambito di percorsi diagnostici codificati per un’efficiente valutazione e gestione.

Le casistiche disponibili ad oggi (peraltro prevalentemente retrospettive, osservazionali, in molti casi limitate dall’assenza di gruppi controllo) suggeriscono che almeno il 20% dei pazienti riferisce sintomi di durata prolungata dopo l’infezione acuta, un sottogruppo dei quali di natura cardiovascolare.

Nel REACT-220, studio di popolazione su 606 434 pazienti britannici con pregresso COVID-19, è emerso che il 37.7% dei pazienti riferiva la persistenza di almeno un sintomo – dispnea, astenia o dolore toracico – a distanza di 12 settimane: sesso femminile, età avanzata, obesità, abitudine tabagica (anche con sigaretta elettronica) e lo status di operatore sanitario erano tra i fattori associati alla maggior probabilità di persistenza dei sintomi ad almeno 3 mesi dall’infezione acuta.

La dispnea è comune nei pazienti con complicanze dell’infezione da SARS-CoV-2 di tipo cardiaco e polmonare, tra cui lo scompenso cardiaco, la miocardite, le aritmie, l’embolia polmonare, la fibrosi polmonare e l’iperreattività bronchiale da infiammazione vascolare polmonare. Escluse queste cause, nelle PASC la dispnea è spesso concomitante all’intolleranza all’esercizio, riconoscendo come principale meccanismo eziologico il decondizionamento.

In uno studio di 247 pazienti con COVID-19 gestiti a domicilio l’affaticabilità e l’intolleranza all’esercizio sono stati riportati nel 30% e 15% dei casi, rispettivamente, a 6 mesi21. Un dato critico emerso riguarda il sottogruppo dei giovani pazienti tra i 16 e i 30 anni, di cui le donne rappresentavano il 54% del totale, che hanno riportato – oltre alla comune febbre – problemi di memoria e di concentrazione, dispnea e astenia fino a 6 mesi dopo l’infezione.

Numerosi studi hanno inoltre evidenziato una correlazione tra il long COVID e la sindrome da tachicardia posturale ortostatica (POTS), riconosciuta come manifestazione disautonomica, che si verifica in una percentuale di pazienti con PASC in percentuale variabile tra il 10% e il 41% a seconda delle casistiche22: è contraddistinta da un persistente aumento della frequenza cardiaca in ortostatismo maggiore di 30 battiti dopo 5 min dal clinostatismo, che può manifestarsi con palpitazioni, dolore toracico e intolleranza all’esercizio.

I meccanismi fisiopatologici ritenuti alla base della POTS nella cronicizzazione delle sequele virali da COVID-19, spesso coesistenti, sono principalmente l’ipovolemia, il neurotropismo virale, l’infiammazione e l’autoimmunità.

I pazienti (prevalentemente donne) avvertono concomitante dispnea, cefalea, difficoltà di concentrazione, astenia. In alcuni casi di POTS post-COVID sono stati descritti episodi convulsivi e presincopali.

Se la POTS non viene trattata e si protrae nel tempo, l’astenia diviene debilitante e il decondizionamento aumenta incidendo inevitabilmente sulla qualità di vita e sul tono dell’umore. Spesso la diagnosi è tardiva poiché, come per altre patologie, notoriamente le donne si rivolgono meno e più tardivamente alle attenzioni mediche e tendono in molti casi a sottovalutare il corteo sintomatologico che segue all’infezione acuta.

FISIOPATOLOGIA

Il PASC-CVS nel sesso femminile

Dal punto di vista fisiopatologico, i pazienti con PASC hanno una ridotta gettata sistolica, ridotte pressioni di riempimento ventricolari sinistre, un’aumentata frequenza cardiaca al basale, una minor efficienza ventilatoria e una minor estrazione di ossigeno sistemico.

Il danno endoteliale vascolare è effetto diretto dell’infezione virale ed indiretto della risposta immune, ed è strettamente connesso al rischio di spasmo coronarico, dato particolarmente rilevante nel sesso femminile, in cui la maggior espressione di interleuchina (IL)-6 nella fase acuta di malattia, l’aumentata risposta immunitaria e l’azione degli ormoni sessuali rendono meno rilevanti i sintomi in fase acuta, ma prevalente il danno endoteliale e la cronicizzazione di malattia nei mesi successivi alla clearance virologica23. Questi fattori eziologici multipli sono alla base del frequente sintomo di dolore toracico da PASC-CVS (in assenza di forme di PASC-CVD).

Diversi fattori e mediatori proinfiammatori caratterizzano la risposta immune nelle donne proprio nel post-COVID, primo fra tutti la differenza biologica nell’espressione dei recettori coinvolti nella genesi del danno d’organo da COVID-19 (gli estrogeni notoriamente aumentano il numero di recettori ACE-2).

È noto che le differenze sesso-relate nella risposta immunitaria variano nel corso della vita: nelle fasi post-puberali e premenopausali le donne hanno valori più alti di citochine infiammatorie (in particolare IL-6, fattore di necrosi tumorale e IL-1β), rispetto agli uomini in fase post-puberale e adulta.

Gli ormoni estradiolo, progesterone e gli androgeni a loro volta hanno differenti concentrazioni nell’età avanzata, per cui gli uomini hanno proporzionalmente livelli più alti di citochine infiammatorie con il progredire dell’età. Gli ormoni sessuali potrebbero avere un ruolo centrale anche nel perpetuare lo stato iper-infiammatorio della fase acuta dopo la guarigione, e ciò ha come conseguenza epidemiologica che la maggior parte dei casi di long COVID avviene in epoca fertile (Figura 2).




Inoltre, le cause di disabilità a latere degli effetti del danno d’organo diretto includono dolore diffuso, astenia con malessere post-esercizio, intolleranza ortostatica e danno cognitivo compresa la sopracitata “brain fog”6.

Questo cluster di sintomi è simile a quello osservato in altre sindromi post-infettive, che potrebbe progredire in fibromialgia, sindrome da affaticamento cronico, POTS e altre cosiddette sindromi da sensibilizzazione centrale.

Si ipotizza che queste sindromi condividano un meccanismo fisiopatologico comune con infiammazione neuronale centrale e rimodellamento cerebrale e midollare, che conduce ad un’incrementata sensibilità a molteplici stimoli, iperattività simpatica e ridotta efficienza delle vie inibitorie24. Altre possibili spiegazioni potrebbero essere un coinvolgimento miocardico e/o pericardico25, magari non diagnosticato nei test diagnostici iniziali, ipotesi peraltro ancora molto discussa.

L’astenia e l’intolleranza all’esercizio, altresì molto comuni nel post-COVID, potrebbero avere diverse cause, tra cui l’alterazione della risposta immunitaria e del metabolismo, che portano entrambe al decondizionamento, riconosciuto come effetto finale in comune a molte condizioni relate al COVID-19, come l’allettamento e l’inevitabile riduzione se non abbandono dell’attività fisica.

Autoimmunità e aspetti genere-specifici

Il danno d’organo causato da un’eccessiva risposta infiammatoria attivata dal virus, ma anche una reazione autoimmune indotta dal virus stesso potrebbero essere responsabili dei sintomi del long COVID. Infatti, il virus potrebbe presentare alcune similitudini con componenti dell’organismo (fenomeno noto come “mimetismo molecolare”) che porta alla creazione di autoanticorpi.

L’ipotesi autoimmune potrebbe giustificare la più elevata incidenza di questa sindrome nel sesso femminile. Infatti la risposta immune – sia per fattori genetici che ormonali – è più intensa nelle donne rispetto agli uomini e questa rappresenta un’arma a doppio taglio: l’outcome del COVID-19 acuto è più severo nel sesso maschile ma le reazioni autoimmuni sono più frequenti nel sesso femminile. Lo studio della comparsa di autoanticorpi nel siero dei pazienti e la caratterizzazione della specificità di tali autoanticorpi potrebbero essere un importante obiettivo per cominciare a identificare trattamenti personalizzati e specifici anche in base al sesso dei pazienti affetti da long COVID.

Emergono inoltre dati sempre più consistenti che evidenziano che l’infezione da SARS-CoV-2 sia associata alla genesi di un ampio spettro di autoanticorpi contro proteine che sono coinvolte in diverse attività immunologiche (tra cui l’attivazione linfocitaria).

I principali meccanismi alla base dello sviluppo di autoimmunità COVID-19-relata sembrano pertanto essere i seguenti:

– il mimetismo molecolare attraverso cui il SARS-CoV-2 cross-reagisce con gli antigeni renali, polmonari, cardiaci, cerebrali e vescicali;

– l’induzione eccessiva dei NET (neutrophil extracellular traps);

– la maggior produzione femminile di IgG, che migliorano l’outcome di malattia ma ne cronicizzano le manifestazioni cliniche;

– la presenza di frammenti di mRNA di SARS-CoV-2 (RNAemia), osservati nel 25% dei pazienti al momento della diagnosi di infezione, che sono risultati significativamente correlati a sintomi relativi a difficoltà di concentrazione e di memoria dopo la fase acuta della malattia26.

Uno studio recente ha infine associato l’alterazione del profilo immunoglobulinico di IgM e IgG3 ad un rischio aumentato di sviluppare il long COVID, poiché tali immunoglobuline sono secrete dai linfociti B in risposta all’induzione da interferone e al segnale citochinico IL-4, a loro volta alterati nella persistenza di malattia dal danno della sintesi di interferone e dall’aumentato “signaling” interleuchinico27.

Fattori genetici

Emergono dati sempre più consistenti che mutazioni nei geni codificanti per componenti dell’immunità innata come i recettori “toll-like” (TLR) e la lectina 2 legante il mannosio (MBL2) possano svolgere un ruolo critico nella capacità del sistema immunitario di riconoscere il SARS-CoV-2, al fine di avviare una risposta precoce per prevenire lo sviluppo di sintomi gravi e accelerare la clearance virale28.

Tali mutazioni, che determinano alterazioni nella risposta all’infezione, potrebbero essere determinanti anche nel long COVID. È stato inoltre dimostrato che pazienti con COVID-19 grave presentano mutazioni dei geni coinvolti nella regolazione dell’immunità, quali interferoni di tipo I e III, suggerendo la presenza di tali mutazioni anche nel long COVID. In altri pazienti, preesistenti disordini emocoagulativi o varianti genetiche dell’assetto trombotico possono complicare il quadro clinico dell’infezione da SARS-CoV-2 considerando che lo stesso virus potrebbe indurre nuovi fenomeni vascolari procoagulativi29.

Gli studi più recenti si stanno pertanto concentrando sulle analisi ematiche trascrittomiche ed epigenomiche, rilevando dati sorprendenti sui cambiamenti – persistenti anche per mesi – dell’ematopoiesi e dell’immunità innata dopo infezione acuta da COVID-1930.

ASPETTI NEURO-PSICOLOGICI E SOCIALI

Mentre nella fase acuta di malattia è probabile che la minore severità dei sintomi sia legata anche a fattori prettamente comportamentali, come la minore esposizione al virus e la maggiore tendenza delle donne al lavaggio delle mani, lo sviluppo dei sintomi post-COVID nella loro eterogeneità è anche influenzato da aspetti psicologici e sociali31.

Per quanto attiene agli aspetti psicologici, circa il 90% dei pazienti può potenzialmente sviluppare almeno un sintomo neuropsichiatrico nei 6 mesi successivi all’infezione, e tra questi la depressione è il più frequente, in particolare nelle donne32.

Dalla letteratura emerge una chiara correlazione tra lo stato infiammatorio determinato dal COVID-19 e i sintomi neuropsichiatrici33. Lo studio del processo neuroinfiammatorio causato dall’infezione acuta è la chiave per comprendere le cosiddette manifestazioni proteiformi del long COVID. Gli aumentati livelli di IL-1 e IL-6 nel long COVID sono direttamente correlati allo sviluppo di depressione (tra l’altro è stato dimostrato che l’IL-6 causa un danno diretto alla barriera ematoencefalica), con una prevalenza a 12 settimane dall’infezione stimata tra l’11% e il 20% nella popolazione ospedalizzata e tra il 3% e il 16% nella popolazione non ospedalizzata34.

È noto come in generale la depressione abbia una più alta prevalenza nelle donne rispetto agli uomini, in particolar modo in fase adolescenziale e in età avanzata. Il 20-25% circa della popolazione femminile attraversa una fase depressiva nella sua vita, e questo è stato connotato come fattore di rischio emergente non tradizionale per la patologia cardiovascolare nella popolazione femminile35.

La depressione relata all’infezione da SARS-CoV-2 potenzialmente conduce ad una maggiore vita sedentaria, all’incremento dell’abitudine tabagica e a disturbi della nutrizione che conducono al sovrappeso e all’insulino-resistenza, essi stessi fattori di rischio cardiovascolare, rendendo più significativa l’interrelazione tra COVID-19, depressione, patologia cardiovascolare, infiammazione e sesso femminile.

Nel dettaglio, il sesso femminile, l’età giovanile, lo stato sociale legato allo status di studente o di disoccupazione, così come sintomi specifici come la mialgia e le vertigini, sono stati associati a un maggior impatto psicologico del periodo pandemico e a maggiori livelli di stress, ansia e depressione36.

È stato inoltre dimostrato che i fattori di rischio psico-sociali nella donna si intensificano durante le pandemie, dovuti in parte ad un preesistente stato ansioso-depressivo e all’incremento dei casi di violenza domestica. Inoltre le donne vanno incontro a specifici stress relati alla pandemia in relazione alla funzionalità riproduttiva e alle sue fasi, in particolare dovuti a problemi di fertilità, aborti e depressione post-partum37. Gli aspetti salienti di queste interazioni sono illustrati nella Figura 3.




DIAGNOSI DI PASC

La diagnosi di PASC è un processo complesso che deve essere gestito da un team multidisciplinare, di cui i medici di base rappresentano il primo punto di contatto poiché indentificano questi pazienti e coordinano l’assistenza con gli altri specialisti. Tipologia e gravità dei sintomi dovrebbero guidare l’iter diagnostico: in presenza di sintomi di tipo cardiovascolare un ragionevole approccio iniziale include l’esecuzione di 1) test di laboratorio di base (emocromo completo, dosaggio della proteina C-reattiva e della troponina I), 2) ECG, 3) ecocardiografia a riposo, 4) ECG secondo Holter, 5) radiografia o tomografia computerizzata del torace (in casi specifici e selezionati), 6) test di funzionalità polmonare38.

La consulenza cardiologica deve essere riservata a coloro che presentano alterazioni dei test precedenti, pazienti con cardiopatia nota con sintomi e segni nuovi o peggioramento dei preesistenti o con complicanze cardiache diagnosticate durante l’infezione.

L’anamnesi e l’esame obiettivo dovranno essere accurati al fine di escludere una PASC-CVD; in presenza di dolore toracico sarà fondamentale la stratificazione del rischio cardiovascolare per decidere ulteriori test diagnostici39.

Benché la risonanza magnetica cardiaca abbia evidenziato una frequenza relativamente elevata di possibile coinvolgimento infiammatorio in pazienti con pregresso COVID-19, nello studio dei pazienti senza storia di malattia cardiovascolare ma con incremento di troponina al ricovero, la risonanza magnetica mostrava segni di edema extracellulare persistente a livello cardiaco e muscolo-scheletrico a 3 mesi, con segni di regressione a 12 mesi.

Una recente metanalisi tuttavia ha rilevato che quasi la metà dei pazienti con pregressa infezione da SARS-CoV-2 ha una o più anomalie alla risonanza magnetica cardiaca, che andrà quindi riservata a casi selezionati, ad esempio quelli in cui appare evidente dalla sintomatologia un coinvolgimento multiorgano40.

GESTIONE DELLE PASC-CVS

Il trattamento delle forme di PASC-CVS è sostanzialmente empirica e dipende dai sintomi presentati dal paziente; ad ora non sono emerse indicazioni E differenziazioni in base al sesso41.

In presenza di tachicardia inappropriata ed intolleranza all’esercizio bisogna indirizzare i pazienti ad un esercizio aerobico che aumenti massa, volume sanguigno e la compliance ventricolare spostando la curva di Frank-Starling verso l’alto, al fine di incrementare la gettata sistolica e la captazione di ossigeno, insieme alla capacità funzionale.

Importante anche incrementare gradualmente l’entità dell’esercizio fisico, iniziando con attività sedute o semisedute, per favorire gradatamente una tolleranza all’esercizio eseguito in posizione eretta; si suggerisce di iniziare con 5-10 min al giorno ed incrementare la durata dell’esercizio nelle successive settimane. Nei casi di tachicardia inappropriata sarà utile avviare betabloccanti o calcioantagonisti.

Nel caso di persistenza di episodi di dolore toracico – se identificabile come secondario ad un meccanismo infiammatorio di tipo costocondritico – possono essere utili i farmaci antinfiammatori non steroidei per 1-2 settimane associati a basse dosi di colchicina.

Nel sospetto di una forma microvascolare è indicata la terapia con calcioantagonisti, oppure molecole come la L-arginina alla posologia di 4 mg bid, al fine di aumentare la concentrazione di ossido nitrico circolante42.

In caso di dispnea non correlata a malattie cardiovascolari e polmonari, di cui una possibile causa può essere il basso precarico, potrebbe avere una certa utilità l’esercizio aerobico e la ginnastica respiratoria con potenziamento della respirazione diaframmatica.

Nell’ipotensione ortostatica possono essere di ausilio farmaci betabloccanti non selettivi come il propranololo, la midodrina (2-10 mg/die), mentre il fludrocortisone ha un margine di impiego al fine di incrementare l’ipovolemia.

Nel caso della POTS sono consigliati trattamenti farmacologici e non farmacologici. Tra questi ultimi, aumentare l’introito di acqua (2-3 l/ die), sale (8-10 g/die), esercizi aerobici 30 min 4 volte a settimana. È consigliato l’uso di “plasma expander” come fluorocortisone (0.1-0.2 mg/die); inibitori della frequenza cardiaca come propranololo (10-20 mg fino a 4 volte/die), ivabradina (2.5-7.5 mg bid) e farmaci vasocostrittori come la midodrina (2.5-15 mg tid)43.

In uno studio irlandese del 2022 condotto in una clinica specializzata per il post-COVID su un numero limitato di pazienti (n = 52) di cui 40 (76.9%) erano donne è stato utilizzato il naltrexone (antagonista degli oppiacei) a bassa posologia, noto per contrastare anche l’astenia cronica. Alla fine del percorso terapeutico (2 mesi) il 69% dei pazienti ha riportato, tramite questionario sulla qualità di vita, il miglioramento di 6 su 7 parametri richiesti: guarigione da COVID-19, miglioramento delle performance nelle attività quotidiane, livelli di energia, livelli di dolore generalizzato, di concentrazione e miglioramento della qualità del sonno44.

Un altro studio in corso, attualmente in fase III, è il trial randomizzato multicentrico STIMULATE-ICP45, che si prefigge lo scopo di studiare i pazienti con long COVID inseriti in un percorso di cure integrate che annovera l’impiego del CoverscanTM (risonanza magnetica multiorgano) e programmi di riabilitazione ad hoc, randomizzati a famitidina/loratadina, o colchicina, o rivaroxaban, o placebo.

Altri studi in corso sono basati sullo studio di farmaci in relazione a specifici sintomi nell’eterogeneità di presentazione del long COVID, ad esempio il montelukast (inibitore dei leucotrieni), per i pazienti con sintomi respiratori46; il deupirfenidone per il trattamento dei pazienti con fibrosi polmonare post-COVID47, e il leronlimab48, anticorpo monoclonale IgG4, che ha azione immunomodulante e contrasta in tal modo il corteo sintomatologico derivante dalla persistenza del pattern infiammatorio virale.

Anche se questi studi non sono esclusivamente indirizzati alla popolazione femminile, potranno fornire ulteriori elementi di riflessione alla comunità scientifica.

CONCLUSIONI

In conclusione, la sindrome long COVID nelle donne è caratterizzata da una serie di peculiarità fisiopatologiche e cliniche. Le donne hanno un rischio di long COVID 3 volte maggiore degli uomini, per specifiche ragioni fisiopatologiche. La severità della patologia e il tempo di clearance virologica non sono determinanti nella prevalenza della sindrome. I sintomi più comuni nelle donne sono sia fisici (primi fra tutti astenia e dispnea) che psicologici. Il corteo clinico del long COVID, essendo di durata prolungata, impatta anche su non trascurabili aspetti socio-economici della vita di una donna, per cui la visione della patologia e della sua gestione dovrà essere volta ad uno sguardo necessariamente più ampio e globale, non solo strettamente medico ma anche psicologico e socio-ambientale.

RIASSUNTO

Il long COVID è una sindrome clinica caratterizzata dalla persistenza o dallo sviluppo di nuovi sintomi attribuibili al COVID-19 a distanza di 12 settimane dall’infezione iniziale. Oltre 200 sintomi sono ascrivibili alla patologia, i più comuni dei quali rappresentati da astenia, dispnea persistente e debolezza muscolare. Le donne hanno un rischio triplicato di incorrere nel long COVID, e i sintomi più frequentemente descritti sono astenia persistente, dolore toracico, disosmia e disgeusia, palpitazioni, dolori muscolari e sintomi di pertinenza neurologica, gastrointestinale e reumatologica. Le peculiarità cliniche del long COVID sono influenzate dalla disfunzione endoteliale, dagli ormoni sessuali e dalla diversità nella regolazione della funzione immunitaria a seguito del primo contatto con il virus. La patologia inoltre è nota causare disfunzioni talora multiorgano, per cui sono state testate diverse strategie terapeutiche e tuttora sono in corso vari trial, principalmente focalizzati nell’ambito della terapia anticoagulante ed immunomodulante. Ad oggi le tipologie di intervento maggiormente adoperate sono programmi di riabilitazione ad hoc e trattamenti farmacologici selezionati in base ai casi specifici. Scopo di questa rassegna è analizzare le peculiarità cliniche e fisiopatologiche relate al sesso per comprendere i vari fenotipi di long COVID ed eventualmente condurre ad un migliore e più sartoriale approccio diagnostico e terapeutico.

Parole chiave. Donne; Epigenetica; Immunomodulazione; Long COVID.

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