Studi clinici per la malattia COVID-19:
navigando tra speranze e illusioni, in attesa di certezze

Giuseppe Di Pasquale1, Aldo P. Maggioni2

1Editor, Giornale Italiano di Cardiologia

2Centro Studi ANMCO, Fondazione per il Tuo cuore, Firenze

La pandemia da coronavirus 2019 (COVID-19) nella sua diffusione planetaria ha colpito pesantemente il nostro Paese determinando un numero di morti inferiore soltanto a quello degli Stati Uniti e del Regno Unito1. La risposta della comunità medica all’attacco di questo virus sconosciuto è stata pronta, generosa e anche estremamente attiva nella ricerca frenetica di possibili strategie terapeutiche. Il ciclo della vita del coronavirus comprende numerosi step che vanno dall’attacco e ingresso del virus nelle cellule dell’uomo, la replicazione e la traslazione. Questi diversi step sono stati identificati come target potenziali di diversi interventi farmacologici. Altre categorie di farmaci in corso di valutazione agiscono come immunomodulatori, soppressori dello “storm” citochinico o come antagonisti dell’attivazione pro-coagulativa.

La mancanza di terapie specifiche per la malattia COVID-19 ed i prevedibili tempi lunghi per l’arrivo di un vaccino hanno stimolato i ricercatori in tutto il mondo a testare l’efficacia di farmaci già utilizzati per altre patologie virali e non2. L’utilizzo di farmaci approvati per altre indicazioni (“drug repurposing”) ha il vantaggio di potere disporre di ampie informazioni di farmacologia e tossicologia umana che facilitano la rapida approvazione di trial clinici3. Esistono tuttavia potenziali rischi per l’utilizzo di questi farmaci in contesti patologici differenti e non completamente conosciuti4.

I TRIAL CLINICI IN CORSO

La contagiosità dell’entusiasmo dei ricercatori nella pianificazione di studi clinici nei pazienti COVID-19 non è stata sicuramente inferiore alla contagiosità del coronavirus5,6. Ad oggi 28 maggio 2020 risultano in PubMed oltre 7000 pubblicazioni in tema COVID-19, molte di autori italiani, e 1087 studi clinici sono registrati ad oggi sul sito ClinicalTrials.gov con oltre 600 studi di intervento e trial clinici randomizzati (RCT) che intendono testare circa 300 nuovi approcci terapeutici7. Molti di questi trial sono purtroppo di piccole dimensioni e con debolezze metodologiche del disegno. Ad esempio su 145 trial registrati dell’idrossiclorochina, 32 hanno una popolazione di studio di non oltre 100 pazienti, 10 non hanno un gruppo di controllo e 12 prevedono un confronto non randomizzato8.

A livello nazionale il Ministero della Salute ha svolto un’azione encomiabile affidando all’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA) la valutazione di tutti gli studi di intervento farmacologico e identificando un unico comitato etico nazionale, quello dell’IRCCS Lazzaro Spallanzani di Roma, per l’approvazione definitiva degli studi clinici con procedura fast-track. AIFA in tempi brevi ha finora concesso l’autorizzazione per la partenza di 34 studi clinici. Le categorie farmacologiche più frequenti riguardano gli agenti antivirali, antinfiammatori e antitrombotici. Le caratteristiche comuni a questi studi sono quelle della semplificazione delle procedure di arruolamento, controlli, schede raccolta dati e follow-up, pur nel rispetto delle norme della “good clinical practice”. Purtroppo molti di questi studi sono “underpowered”, con endpoint soft e con una previsione ottimistica dell’efficacia; solo 5 di essi (16%) sembrano essere di potenza adeguata e in grado di fornire evidenze sufficientemente affidabili da potere essere utilizzate nella pratica clinica (Maggioni A.P., dati non pubblicati). I protocolli degli studi sono disponibili in un’apposita sezione del sito AIFA9.

Agli studi approvati da AIFA si aggiungono una miriade di altri studi osservazionali approvati dai comitati etici locali o di area vasta, che talora tuttavia prevedono la somministrazione in aperto di farmaci off-label. Uno studio recente condotto in Cina presso il comitato etico della Provincia di Henan ha evidenziato che nell’ambito dei 41 studi COVID-19 sottoposti per l’approvazione nel periodo 2 febbraio-7 marzo 2020 per 31 di essi (75%) sono state richieste modifiche sostanziali relative al disegno degli studi ed al modulo di consenso informato per il paziente10.

I LIMITI DEI TRIAL CLINICI IN CORSO

Il fervore delle numerose iniziative di trial clinici spontanei durante la pandemia COVID-19 è sicuramente rassicurante sulla vitalità della ricerca clinica svolta nel nostro Paese, nonostante gli scarsi incentivi istituzionali e le pastoie burocratiche, tuttavia la pletora di piccoli studi si associa ad inevitabili limiti e potenziali pericoli. Iniziative sparse sull’impiego di singoli farmaci in casistiche limitate di pazienti e senza un gruppo di controllo difficilmente potranno portare a risultati attendibili e soprattutto fruibili nella pratica clinica, esponendo d’altra parte i pazienti ai potenziali rischi connessi ad ogni terapia11.

Un esempio paradigmatico è rappresentato dalla clorochina, vecchio farmaco antimalarico, e dal suo derivato idrossiclorochina testato nei pazienti con malattia COVID-19 sulla base di promettenti dati preclinici che ne hanno dimostrato un’efficacia in vitro nell’inibizione dell’infezione COVID-1912. Il farmaco è stato finora utilizzato in almeno una dozzina di piccoli studi di bassa qualità con disegno prevalentemente in aperto e non controllati, che non sono riusciti a dimostrare un’efficacia clinica dell’idrossiclorochina eventualmente associata all’azitromicina. Risultati neutri dei due farmaci sulla mortalità intraospedaliera sono stati riportati anche in un ampio studio non randomizzato condotto nello stato di New York in pazienti con COVID-19 (271 trattati con idrossiclorochina, 211 con azitromicina e 735 con l’associazione dei due farmaci)13. Inoltre sono stati segnalati effetti indesiderati anche gravi legati al potenziale pro-aritmico di entrambi i farmaci a causa del prolungamento del QT che ha portato all’interruzione prematura di uno studio nel quale venivano utilizzati elevati dosaggi di idrossiclorochina14.

Infine recentemente sono stati pubblicati i risultati di un ampio registro multinazionale condotto in 671 ospedali in sei continenti, che ha incluso circa 15 000 pazienti ospedalizzati per infezione COVID-19 e trattati a discrezione del medico con clorochina o idrossiclorochina associata o meno ad un macrolide. Il gruppo di controllo era costituito dai pazienti che non ricevevano nessuno di questi trattamenti. Lo studio ha dimostrato un aumento della mortalità intraospedaliera associata ai trattamenti che hanno anche comportato un rischio aumentato di aritmie ventricolari durante l’ospedalizzazione15. Sulla base di queste evidenze la European Medicines Agency, l’AIFA e successivamente anche la Food and Drug Administration hanno emesso dei “warning” raccomandando un utilizzo di questi farmaci solo nell’ambito di studi clinici.

In considerazione di queste criticità viene ribadita l’assoluta necessità di RCT rigorosi e di ampie dimensioni per verificare efficacia clinica e sicurezza dell’idrossiclorochina nelle varie fasi della malattia COVID-1916. Un RCT italiano ben disegnato (Hydro-Stop-COVID19 Trial) recentemente approvato da AIFA ha iniziato ad arruolare pazienti sintomatici con infezione COVID-19 non grave gestiti in un contesto domiciliare.

Un altro esempio è rappresentato dal lopinavir/ritonavir che, dopo le promesse iniziali, nel momento in cui è stato testato in un RCT non ha dimostrato la propria efficacia in pazienti ospedalizzati con forma severa di COVID-1917. Studi clinici eseguiti in assenza di un gruppo di controllo hanno già nel passato indotto false conclusioni. Ad esempio i primi studi con la terapia ormonale sostitutiva nella donna che non prevedevano un disegno in doppio cieco controllato con placebo, suggerivano un significativo beneficio in termini di riduzione degli eventi cardiovascolari a favore del trattamento ormonale. Gli RCT rigorosi successivamente eseguiti hanno invece dimostrato che la terapia ormonale sostitutiva non aveva un impatto positivo sulla mortalità cardiovascolare, mentre aumentava il rischio di tumore della mammella.

È stato stimato che l’85% della ricerca si associa ad uno spreco di risorse a causa di una scarsa qualità del disegno degli studi, cattiva conduzione e reporting scadente dei risultati18. È comprensibile che le criticità connesse alla pandemia COVID-19, insieme alla pressione per fare partire in fretta gli studi, abbiano amplificato queste debolezze.

A fronte di un enorme numero di trial in corso e dell’attuale andamento della pandemia COVID-19 sta inoltre emergendo in Italia una criticità legata alla riduzione del numero di pazienti arruolabili negli studi clinici. A tale riguardo, in data 21 maggio, AIFA ha invitato i proponenti di nuovi trial a verificare l’effettiva possibilità di arruolamento e ad aderire ad un’attività di ricerca collaborativa, come raccomandato anche dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), allo scopo di ridurre lo spreco di risorse ed evitare duplicazioni e studi sottodimensionati.

Un altro aspetto importante riguarda la contestualizzazione dei risultati provenienti dagli studi clinici. Come per ogni RCT, l’efficacia eventualmente dimostrata da un intervento farmacologico è applicabile a pazienti con caratteristiche sovrapponibili a quelli inclusi nel trial. Relativamente al COVID-19 sarà importante considerare la fase e la severità della malattia nella quale un farmaco si dimostrerà eventualmente efficace. Ogni estrapolazione dei risultati per il trattamento di pazienti in una fase diversa della malattia non avrebbe solidità scientifica e potrebbe anche comportare dei rischi. Ad esempio, se una delle terapie che sembrano oggi più promettenti come gli anticorpi monoclonali (nove sperimentazioni in corso nel mondo), già utilizzati con successo nell’infezione da virus Ebola, si dimostrerà efficace dovremo tenere presente che questa potrà costituire una chance terapeutica solo per i pazienti con malattia polmonare conclamata dal momento che il trattamento agisce con modalità diversa da quella preventiva del vaccino. Avere a disposizione studi di ampia e adeguata dimensione faciliterebbe la valutazione dei risultati anche nei diversi sottogruppi di pazienti a diverso livello di gravità.

In aggiunta alla limitata qualità metodologica di molti degli studi COVID-19 in corso, esistono anche criticità relative alla disseminazione dei “preprints” ed alla duplicazione degli studi clinici. La grande disponibilità di “preprints” da una parte consente un accesso precoce ai risultati degli studi, ma dall’altra induce una divulgazione irresponsabile attraverso i media di risultati non ancora validati, creando in alcuni casi illusorie aspettative. La duplicazione di studi simili da una parte è importante, ma un eccesso di replicazioni rischia di tradursi in uno spreco di risorse.

Sarebbe pertanto auspicabile l’adesione ad una ricerca collaborativa condotta con rigore metodologico ed al riguardo esistono diversi importanti progetti in corso. L’OMS ha promosso un megatrial mondiale denominato SOLIDARITY che sta testando quattro strategie terapeutiche: il farmaco antivirale remdesivir sviluppato contro l’Ebola; clorochina e idrossiclorochina; lopinavir/ritonavir, combinazione di farmaci contro l’infezione da HIV e l’associazione di questi ultimi con l’interferone-beta. Lo studio è partito il 26 marzo 2020 e finora ha arruolato circa 3000 pazienti. In Italia lo studio è stato approvato da AIFA ma non sono ancora stati inclusi pazienti italiani. La UK Multicentre Trials Infrastructure ha promosso un megatrial simile denominato RECOVERY di confronto randomizzato di quattro trattamenti COVID-19; lo studio in meno di 2 mesi ha già reclutato più di 9000 pazienti in 173 centri nel mondo ed è prevista la presentazione dei risultati per fine giugno 2020. Lo studio REMAP-CAP è un ulteriore esempio di ampio studio che testa diversi trattamenti per il COVID-19, compresa l’idrossiclorochina. Lo studio prevede la partecipazione di 160 centri in 14 paesi ed un sofisticato disegno adattativo che consente la possibilità per i ricercatori di aggiungere nuovi bracci di trattamento ed eventualmente rimuovere quelli che non dimostrano risultati favorevoli. Infine la Coalition for Epidemic Preparedness Innovations (CEPI) ha avviato lo sviluppo e la sperimentazione in parallelo di otto diversi tipi di vaccino.

I RISCHI DELLA RICERCA CLINICA NON RIGOROSA

La somministrazione di farmaci off-label, farmaci per uso compassionevole e studi non controllati durante una pandemia potrebbe scoraggiare medici e pazienti a partecipare agli RCT che sono gli studi che maggiormente possono portare ad un avanzamento delle conoscenze19.

Un rischio non trascurabile è inoltre l’impatto a livello dei media e dei cittadini derivante dalla comunicazione prematura di risultati favorevoli provenienti da studi non controllati svolti su piccole casistiche e in assenza di un comitato esterno di valutazione degli eventi20. In questi mesi abbiamo tutti assistito a dichiarazioni di efficacia di vari interventi farmacologici sulla base di sensazioni personali espresse dai ricercatori nei talk show prima ancora che nelle pubblicazioni peer-reviewed, spesso sulla base di deboli segnali provenienti da limitate osservazioni. A breve distanza, smentite e raffreddamenti di entusiasmo hanno ulteriormente accresciuto il disorientamento dei cittadini. Il neologismo “infodemia” rende in modo efficace i rischi connessi alla circolazione di una quantità eccessiva di informazioni talvolta non vagliate con accuratezza. Emblematica negli Stati Uniti la granitica certezza proclamata via twitter a fine marzo dal Presidente Donald Trump riguardo ad un intervento farmacologico: “Trump DJ. HYDROXYCHLOROQUINE & AZITHROMYCIN, taken together, have a real chance to be one of the biggest game changers in the history of medicine.” Affermazione prontamente smentita dalla voce della scienza del suo autorevole infettivologo Anthony Fauci, coordinatore della Task Force Coronavirus della Casa Bianca, nonostante la FDA il 28 marzo avesse inspiegabilmente concesso l’autorizzazione urgente all’utilizzo dell’idrossiclorochina contro il COVID-19. L’opposizione a raccomandare l’utilizzo del farmaco in assenza di solide evidenze scientifiche costava inoltre il licenziamento a Rick Bright, direttore del dipartimento statunitense della ricerca biomedica.

Un’analoga trionfalistica modalità di comunicazione è avvenuta per l’antivirale remdesivir sulla base dei deboli risultati positivi di un piccolo RCT che ha incluso 237 pazienti con polmonite da COVID-19 randomizzati a remdesivir o placebo con risultato neutro per l’endpoint primario costituito dal tempo per il miglioramento clinico e interrotto prematuramente per difficoltà a trovare pazienti con criteri di eleggibilità21,22. Dopo la comunicazione ai media dei risultati dello studio la Gilead Sciences, azienda produttrice del farmaco, ha visto immediatamente crescere le quotazioni in borsa dei suoi titoli. Anche in questo caso, all’inizio di maggio, la FDA ha autorizzato l’utilizzo di remdesivir sulla base di risultati incoraggianti ma non ancora definitivi sulla sua efficacia. Soltanto a distanza di un mese un RCT più ampio, che ha incluso 1063 pazienti ricoverati per infezione polmonare COVID-19, è riuscito a dimostrare la superiorità del remdesivir rispetto al placebo per l’endpoint primario del tempo necessario per il recupero (mediana di 11 giorni remdesivir vs 15 giorni placebo)23.

La partecipazione dei pazienti all’interno degli RCT rappresenta anche un valore etico. Un paziente che accetta di entrare in una sperimentazione clinica compie infatti un gesto di grande altruismo nei confronti della comunità. Questo valore etico viene anche riconosciuto da molti autori all’interno del framework dei principi di etica medica come priorità per l’allocazione di risorse sanitarie limitate in corso di pandemia COVID-1924. In considerazione di questo è importante che il paziente riceva il massimo della tutela nei confronti dei possibili effetti indesiderati del farmaco sperimentale e soprattutto che la sua “generosità” possa portare un contributo allo sviluppo delle conoscenze scientifiche25,26. Tutto questo è possibile solo se il paziente adeguatamente informato verrà arruolato all’interno di un RCT rigorosamente condotto e di ampie dimensioni.

CONCLUSIONI

In questi mesi l’ansia di riuscire a produrre risultati in tempi brevi e talora anche l’individualismo e forse la smania di protagonismo insiti nel DNA di alcuni ricercatori hanno portato ad una frammentazione della ricerca clinica con la conduzione di numerosi piccoli studi di debole qualità metodologica. È auspicabile che il leitmotiv “nessuno potrà salvarsi da solo” che in queste settimane spesso risuona, porti tutti a considerare la necessità di una ricerca collaborativa attraverso la partecipazione a RCT anche di respiro internazionale che è la sola che potrà produrre risultati concreti per la comunità. Se poi è anche vero che, auspicabilmente, dopo questa drammatica esperienza diventeremo tutti meno egoisti e individualisti, è fondamentale la condivisione (“open data”) delle acquisizioni in corso, come ad esempio quella dei riscontri istopatologici eseguiti nei pazienti deceduti per COVID-19.

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