In questo numero

editoriali




Amiloidosi cardiaca transtiretino-relata: da malattia ultra rara e incurabile a malattia più diagnosticabile e per la quale ora esiste una terapia

Un’importante rivoluzione culturale sta avvenendo in questi anni nell’ambito dell’amiloidosi cardiaca transtiretino-relata. Innanzitutto da un punto di vista epidemiologico, in quanto da malattia rara ora la si sta considerando una malattia relativamente frequente. Ad esempio in alcuni ambiti specifici l’amiloidosi transtiretino-relata “wild-type” può raggiungere prevalenze fino al 13% o 16% nei pazienti, rispettivamente, con scompenso e stenosi aortica severa. Ma soprattutto perché stanno emergendo terapie specifiche farmacologiche eziologiche che, con meccanismi profondamente diversi, potrebbero cambiare drasticamente la storia naturale della malattia. Lo studio ATTR-ACT dimostra per la prima volta con un trial di fase 3 che nel paziente con cardiomiopatia transtiretino-relata il tafamidis, rispetto al placebo, può essere in grado di ridurre la mortalità complessiva, le ospedalizzazioni per cause cardiovascolari e il peggioramento intrinseco alla malattia della capacità funzionale e della qualità di vita. Claudio Rapezzi et al. ci raccontano l’incredibile cambio di paradigma che sta avvenendo in questa malattia. •




Gli studi PARTNER 3 ed Evolut Low Risk

La saga della sostituzione transcatetere di valvola aortica (TAVR) si arricchisce di una nuova puntata. Questa volta la TAVR, dopo aver dimostrato l’efficacia rispetto alla sostituzione chirurgica nei pazienti a rischio proibitivo, in quelli ad alto rischio o a rischio intermedio, ha affrontato una difficilissima sfida nella popolazione a basso rischio. In questo numero, Giuseppe Tarantini e Giuseppe Musumeci commentano i risultati degli studi randomizzati PARTNER 3 ed Evolut Low Risk, dove la TAVR, confrontata con la sostituzione chirurgica in pazienti più giovani, con meno fattori di rischio ed un’aspettativa di vita più lunga rispetto ai precedenti, ha ottenuto risultati decisamente buoni, simili (se non superiori sotto certi aspetti) alla sostituzione chirurgica. Come correttamente sottolineano gli autori, questo non significa la fine dell’era della sostituzione valvolare aortica chirurgica, perché i risultati di questi studi derivano da popolazioni molto selezionate e da centri di eccellenza. Sicuramente non è ancora il tempo di trattare con TAVR tutti i pazienti con stenosi aortica severa a basso rischio chirurgico, ma tenerne conto durante le valutazioni cliniche di Heart Team può essere utile... altrimenti “I can’t get no satisfaction!”. •

cuore e interazioni




Gli aspetti cardiologici della tiroide

Le patologie della ghiandola tiroidea sono molto frequenti nella popolazione generale e coinvolgono anche molti dei pazienti con malattia cardiovascolare. Tra cuore e tiroide esiste una stretta relazione che talvolta non viene presa in considerazione. Condizioni conclamate di ipo- e ipertiroidismo aumentano il rischio di mortalità e morbilità cardiovascolare mediante un’azione diretta sul miocardio e sulle coronarie, nonché mediante l’azione sul metabolismo lipidico e glucidico e sull’attività della coagulazione. Anche condizioni subcliniche giocano un ruolo importante dal punto di vista cardiovascolare e pertanto non vanno trascurate; sembra infatti che il riconoscimento precoce di queste alterazioni ed il loro trattamento determini un giovamento nei pazienti sia giovani che anziani. In questo interessante contributo, Giovanni Corona et al. illustrano gli aspetti della funzionalità tiroidea e del suo trattamento più significativi per il cardiologo. •

pdta in cardiologia




Sweet Heart, my sweet heart…

Il diabete fa male al cuore, ancor di più dopo una sindrome coronarica acuta. Per vincerlo occorre mettere d’accordo due attori, il cardiologo e il diabetologo, che con un intervento multidisciplinare combinato devono stabilire un protocollo operativo per la gestione del profilo metabolico nelle varie fasi del ricovero ospedaliero e dopo la dimissione. Alla ricerca di un consenso tra le parti, Andrea Di Lenarda et al. hanno registrato le opinioni di cardiologi e diabetologi italiani su alcune tematiche inerenti la gestione pratica del paziente diabetico con sindrome coronarica acuta, cercando di individuare le criticità più significative per suggerire le strategie più efficaci per risolverle. Per trovare questo consenso si sono affidati a un metodo nuovo, il metodo Delphi, nel quale un gruppo di esperti risponde a un questionario standardizzato e dopo varie interazioni, guidate da un facilitatore, si cerca di raggiungere una convergenza di opinioni. In sintesi la necessità, sin dal ricovero, di una stretta collaborazione tra cardiologo e diabetologo nella presa in carico di questi soggetti e l’opportunità di uno specifico percorso diagnostico-terapeutico assistenziale “allargato” alla gestione post-dimissione, dove va valorizzato il ruolo del medico curante. E se c’è accordo, per il nostro “sweet heart”... saranno guai! •

rassegne




Fibrillazione atriale parossistica in corso di sindrome coronarica acuta: che fare?

È riscontro piuttosto frequente il verificarsi di episodi di fibrillazione atriale (FA) parossistica nei pazienti con sindrome coronarica acuta (SCA), durante la fase acuta della stessa. Esistono poche certezze riguardo al significato e al miglior trattamento per questa condizione clinica; l’interessante rassegna di Luigi Oltrona Visconti et al. ha il merito di analizzare le evidenze disponibili ed anche le indicazioni delle linee guida in tale ambito. Il significato prognostico della FA durante SCA rimane tutt’oggi controverso; se infatti gli studi delle scorse decadi non evidenziavano un particolare rischio aggiuntivo ad essa correlato, analisi di registri e di studi più recenti mostrano che l’insorgenza di FA in fase acuta comporta un rischio indipendente di ictus ischemico, infarto miocardico e mortalità totale. Ci si deve quindi porre la domanda se il trattamento anticoagulante in tali pazienti possa ridurre questo rischio aggiuntivo, ma purtroppo non esistono studi che abbiano valutato prospetticamente l’effetto del tipo di trattamento antitrombotico in questa popolazione. In generale emerge che solo una minoranza di questi pazienti riceve una terapia anticoagulante a lungo termine. Conseguentemente, alla mancanza di evidenze il letteratura, anche le linee guida non forniscono indicazioni specifiche riguardo a questa categoria di pazienti rimandando alla valutazione clinica basata sugli score di rischio ischemico ed emorragico e suggerendo in generale una preferenza verso l’uso dei nuovi anticoagulanti orali e per l’associazione con il solo clopidogrel optando per una duplice piuttosto che triplice terapia antitrombotica. •




Le emorragie gastrointestinali in corso di warfarin: una questione non risolta

Nei pazienti affetti da fibrillazione atriale in terapia anticoagulante orale con warfarin più della metà delle emorragie si verificano nel tratto gastrointestinale e sono gravate da un tasso di mortalità compreso tra il 4% e il 15%. I soggetti più a rischio sono gli anziani. Nel tratto superiore i sanguinamenti sono spesso causati dall’ulcera peptica, mentre nel tratto inferiore, dove sono meno frequenti, sono per lo più riconducibili a diverticolosi; in circa il 20% dei casi non viene identificata una causa. Talvolta l’emorragia causata dagli anticoagulanti può slatentizzare, soprattutto durante il primo mese di assunzione, una neoplasia asintomatica dell’apparato gastrointestinale, consentendone una diagnosi precoce. Paolo Alboni et al. analizzano il problema della ripresa della terapia anticoagulante orale dopo un’emorragia gastrointestinale, in cui si deve tenere conto del bilancio rischio/beneficio in base alla severità dell’anemia secondaria al sanguinamento, dell’eventuale possibilità di recidive emorragiche (come in caso di angiodisplasie del tenue) e delle condizioni in cui si è verificata l’emorragia (INR in range terapeutico o sopra il range terapeutico). In letteratura sono disponibili informazioni contrastanti, provenienti da studi osservazionali retrospettivi, che, in considerazione dell’impatto prognostico favorevole, suggeriscono di riprendere la terapia anticoagulante orale solo nei pazienti clinicamente poco compromessi e dopo avere identificato e trattato la causa del sanguinamento. La decisione della ripresa della terapia anticoagulante orale deve comunque essere valutata da un team multidisciplinare, che include il gastroenterologo e il cardiologo. L’uso degli anticoagulanti orali diretti, inibitori della trombina o del fattore X attivato, non risolve la questione, in quanto nonostante una significativa riduzione del rischio emorragico che comporta, non riduce i sanguinamenti gastrointestinali. •




Lavori in corso sull’efficacia dei nuovi anticoagulanti orali in situazioni particolari: la trombosi atriale e auricolare

Paolo Calabrò et al., a nome del Gruppo di Studio sulla Trombosi della Società Italiana di Cardiologia, forniscono un ottimo contributo sulla trombosi atriale auricolare nei pazienti con fibrillazione atriale. La sistematicità e la completezza con cui affrontano l’argomento rende la lettura piacevole e consente di avere un aggiornamento capillare sullo stato dell’arte dei nuovi anticoagulanti orali (NAO) nei pazienti candidati a cardioversione e in quelli con trombosi atriale e/o auricolare. Ad oggi iniziamo ad avere evidenze scientifiche disponibili da studi controllati randomizzati sull’efficacia dei NAO e nuovi studi sono all’orizzonte e ci forniranno presto altre risposte. Oltre a ciò la rassegna non tralascia la comprensione dell’argomento a partire dalle basi fisiopatologiche ed anatomiche (incluso ad esempio la descrizione delle diverse anatomie dell’auricola e di come esse condizionino il rischio di trombosi), rivisitando concetti storici quali quello della triade di Virchow alla luce dei nuovi modelli di studio di flusso sanguigno a livello atriale. •




Angiopatia amiloide cerebrale: da studiare!

Sempre più frequentemente nei pazienti anziani affetti da fibrillazione atriale alla risonanza magnetica dell’encefalo, oltre a lesioni ischemiche, si osservano depositi di amiloide, riconducibili all’angiopatia amiloide cerebrale (deposizione patologica di proteina β-amiloide nella tunica media e avventizia dei vasi leptomeningei e corticali cerebrali), che correla con l’invecchiamento e la demenza (in particolare la malattia di Alzheimer) e che è uno dei principali fattori di rischio per emorragia cerebrale spontanea o secondaria alla terapia anticoagulante orale. Nonostante rappresenti una controindicazione all’anticoagulazione, i comuni score di rischio emorragico utilizzati per la prescrizione delle terapie anticoagulanti non tengono conto di tale condizione e le attuali raccomandazioni non consigliano la sua ricerca sistematica, generando una sostanziale sottostima del rischio emorragico nel paziente anziano. La patologia è comunque poco conosciuta, pertanto Pierluigi Merella et al. elencano le “red flags” per sospettarla. Dato che non sono disponibili trattamenti che modifichino in senso positivo l’andamento della malattia, una maggiore conoscenza della patologia permetterebbe l’individuazione di una quota di pazienti ad elevato rischio di emorragie cerebrali, nei quali la terapia anticoagulante orale va evitata. Questa raccomandazione deriva però dai dati di impiego del warfarin. Ad oggi gli anticoagulanti orali diretti nei pazienti affetti da fibrillazione atriale costituiscono un’opzione terapeutica percorribile, data la significativa riduzione delle emorragie intracraniche che hanno comportato. In alternativa la chiusura percutanea dell’auricola sinistra rappresenta la strategia terapeutica ideale. •

caso clinico




Quegli strani, sconosciuti noduli, in un paziente con arresto cardiaco

Nella diagnosi di cardiomiopatia dilatativa l’etichetta che diamo di “idiopatica” descrive la nostra incapacità o impossibilità ad addentrarci più profondamente nelle cause genotipiche o ultrastrutturali che determinano l’aspetto fenotipico della cardiomiopatia. Spesso inoltre, le cardiomiopatie sono solo una faccia di una patologia ad espressione multiorgano.
Il caso descritto da Lucia Martinese et al.
è emblematico di questo modello diagnostico-patologico: uno storm aritmico con arresto cardiaco rianimato e una diagnosi di sarcoidosi. Fondamentale in questo percorso è l’identificazione di alcune “red flags” che devono portare a una corretta identificazione eziologica della patologia. Il caso è estremamente interessante sia nel metodo diagnostico-organizzativo che nel merito della patologia. La sarcoidosi è una malattia non infrequente, con una prevalenza di 10-40 per 100 000 individui, ma purtroppo sottodiagnosticata, laddove il riconoscimento della patologia permette una terapia eziologica efficace. La presenza di sarcoidosi non dovrebbe essere solo pensata in pazienti che manifestano eventi aritmici eclatanti, ma anche in molti, più modesti quadri di blocco atrioventricolare in pazienti relativamente giovani. •