In questo numero

processo ai grandi trial




Lower is better
: Lo studio IMPROVE-IT
Che la terapia con statine determinasse una riduzione dei livelli di colesterolo LDL e del rischio di eventi cardiovascolari era noto da tempo; non si conosceva invece se l’aggiunta di ezetimibe, agente non statinico inibente l’assorbimento intestinale del colesterolo, potesse determinarne una ulteriore riduzione. Nel contesto della sindrome coronarica acuta i risultati dello studio IMPROVE-IT hanno dato risposta a questo dubbio: la combinazione ezetimibe 10 mg + simvastatina 40 mg ha mostrato di ridurre significativamente l’endpoint combinato di morte cardiovascolare, infarto miocardico non fatale, angina instabile, rivascolarizzazione coronarica e ictus non fatale rispetto alla sola terapia con simvastatina 40 mg. Dello studio è interessante notare che i criteri di inclusione erano sostanzialmente recente sindrome coronarica acuta e livelli di colesterolo LDL compresi tra 50 e 100 mg/dl se già in terapia ipolipemizzante o tra 50 e 125 mg/dl in assenza di tale terapia. I risultati sono stati sorprendenti: 18 144 pazienti arruolati, significativa riduzione del colesterolo LDL nei pazienti in terapia di combinazione (53.7 vs 69.5 mg/dl) e degli eventi cardiovascolari a 7 anni (32.7 vs 34.7%), con simile incidenza di eventi avversi nei due gruppi di studio. I commenti di Alberto Menozzi et al. ci permettono una lettura allargata dei risultati dello studio, sottolineandone alcuni aspetti peculiari: il potenziale superamento della “statin hypothesis” e delle teorie sugli effetti pleiotropici delle statine, il ruolo indipendente della proteina C-reattiva ad alta sensibilità nel migliorare l’outcome clinico, la conferma che l’ipotesi “lower is better” è valida anche sotto la soglia dei 70 mg/dl soprattutto in sottogruppi di pazienti a rischio particolarmente elevato, quali diabetici ed anziani. •

editoriale e linee guida
Articolo del mese




Cenerentola ha trovato il suo principe azzurro? Le nuove linee guida 2015 sulle malattie del pericardio
In questo editoriale Massimo Imazio e Antonio Brucato analizzano la struttura delle nuove linee guida ESC 2015 per la diagnosi e la terapia delle malattie pericardiche (tradotte in lingua italiana in questo stesso numero del Giornale), sottolineandone le principali novità e il potenziale impatto sulla pratica clinica. Rispetto alla versione pubblicata nel 2004, le nuove linee guida presentano una struttura più complessa derivante da nuovi dati resisi disponibili dal 2004, forniscono i primi dati epidemiologici e fanno il punto sulle principali sindromi pericardiche (pericardite, versamento pericardico, tamponamento cardiaco, pericardite costrittiva). Esse inoltre presentano nuove sezioni sull’imaging integrato delle malattie pericardiche e propongono un iter diagnostico-clinico mirato all’identificazione delle patologie che possono richiedere un trattamento specifico. Infine, non mancano sezioni relative alla gestione diagnostico-terapeutica della malattia pericardica in particolari contesti, quali gravidanza e allattamento, età infantile e senile, nonché sulle tecniche interventistiche e chirurgiche.
La malattia del pericardico è stata per anni la “Cenerentola” della patologia cardiovascolare; la speranza è che la mole di dati pubblicati negli ultimi 10 anni, l’approccio pratico di queste linee guida e il tentativo in esse evidente di standardizzare modalità diagnostiche ed approcci terapeutici possa essere un prezioso punto di partenza per migliorare l’approccio clinico a tale patologia. •

point break




Qualche insegnamento dal tacchino di Karl Popper
Quante volte ci è capitato di dover far fronte alla congestione del paziente con insufficienza cardiaca? E quante volte ci siamo trovati in difficoltà per una risposta al diuretico subottimale? E ancora: quante volte abbiamo vissuto con angoscia la “resistenza al diuretico”? Insufficienza cardiaca ed insufficienza renale spesso coesistono nello stesso paziente; la congestione è la caratteristica distintiva della cosiddetta “sindrome cardio-renale” e l’uso dei diuretici diviene indispensabile al fine di migliorare il quadro clinico ed in particolare i sintomi. Non bisogna però dimenticare che, così come per gli inotropi, anche per i diuretici vale la regola per cui un utilizzo inappropriato può impattare negativamente sulla prognosi. Partendo dal rapporto di interdipendenza tra cuore e rene nell’insufficienza cardiaca, passando attraverso cenni di fisiologia, fisiopatologia, farmacocinetica e farmacodinamica, in questo point break Gennaro Cice arriva a proporre una gestione terapeutica razionale della congestione nel paziente con insufficienza cardiaca. Essa in sostanza prevede l’uso dei diuretici in associazione e sin dall’inizio della terapia; l’idea è quella di ottenere un effetto sinergico condizionante un blocco sequenziale del nefrone. Dallo scritto emerge chiaramente come solo un’approfondita conoscenza di nozioni di base può portare ad un approccio terapeutico adeguato, evitando in questo modo quella condizione di resistenza considerata conseguenza ineluttabile della malattia ma in realtà da considerarsi il più delle volte squisitamente iatrogena e da correlarsi alla consuetudine. Il tacchino di Karl Popper ci insegna a non ritenere che la semplice esperienza sia sufficiente a formulare una teoria! •

rassegna




Indice caviglia-braccio: luci e ombre
Curioso il fatto che incidenza e prevalenza dell’arteriopatia obliterante periferica ancora non siano ben definite. Molti sono i motivi per cui la diagnosi in realtà viene fatta solo in circa il 50% dei pazienti che ne sono realmente affetti: tra questi l’asintomaticità, la frequente atipicità dei sintomi stessi ed una non esaustiva raccolta dei dati clinico-strumentali. L’indice caviglia-braccio (ankle-brachial index, ABI), che si ottiene dal rapporto fra pressione arteriosa sistolica alla caviglia e al braccio, rappresenta un marker strumentale di arteriopatia obliterante periferica e come tale, oltre che per una relativa semplicità di esecuzione, dovrebbe essere utilizzato come primo test diagnostico non invasivo. In generale, un valore compreso tra 0.9 e 1.3 viene considerato normale mentre un ABI <0.90 risulta patologico e permette di identificare soggetti con arteriopatia obliterante periferica. Partendo da un’attenta descrizione della metodica di misurazione dell’ABI, passando attraverso un’analisi accurata dei valori ottenuti, del loro significato in particolari contesti clinici e del loro ruolo nella prevenzione primaria e secondaria delle patologie cardio- e cerebrovascolari, in questa rassegna Luca Naldi et al. affrontano in modo critico le certezze e i dubbi sul ruolo dell’ABI nella pratica clinica come strumento di diagnosi e come marker di rischio cardiovascolare. Non mancano infine alcuni interessanti spunti di riflessione sul possibile ruolo della Medicina Generale nello screening dell’arteriopatia obliterante periferica mediante ABI, fatta salva la standardizzazione della metodica, magari grazie all’utilizzo di dispositivi digitali automatici. •

studio osservazionale




Losartan e dilatazione aortica nel paziente pediatrico con sindrome di Marfan:
good news
In questo studio Elisabetta Mariucci et al. riportano l’esperienza del Policlinico Sant’Orsola-Malpighi di Bologna nella gestione farmacologica del paziente pediatrico affetto da sindrome di Marfan con particolare riguardo alla progressione della dilatazione aortica. I risultati sono interessanti e confermano sul lungo termine quelli ottenuti da altri autori: i pazienti in terapia con losartan presentano una stabilità nel tempo dei diametri aortici a livello dei seni di Valsalva e dell’aorta ascendente. Sono stati arruolati 38 pazienti con sindrome di Marfan diagnosticata secondo i criteri nosologici di Ghent. Già alla prima valutazione ecocardiografica il 60% dei pazienti presentava una dilatazione dei seni di Valsalva mentre una dilatazione dell’aorta ascendente era presente solo nel 10%. Ad un follow-up medio di 4.5±2.5 anni, la dose media di losartan assunta era pari a 0.7±0.3 mg/kg/die. Nella maggior parte dei pazienti in terapia si è osservata una stabilizzazione o una riduzione dello z score; 3 pazienti (8%) sono risultati invece non responder (risposta strumentale non favorevole alla terapia medica). Essi assumevano una dose bassa del farmaco ed avevano iniziato il trattamento tardivamente. Quest’ultima caratteristica accomunava gli 8 pazienti che erano stati sottoposti durante il follow-up a intervento cardiochirurgico sull’aorta o sulla mitrale. Nonostante lo studio sia retrospettivo, riguardi un campione limitato di pazienti e non sia stato seguito un protocollo di trattamento standardizzato, il follow-up prolungato conferisce a questo lavoro una caratteristica di novità in campo scientifico e apre la strada a potenziali studi collaborativi multicentrici nel contesto di questa malattia rara ma severa. •

dal particolare al generale




Interventistica vascolare periferica: mezzo di contrasto iodato addio?
Il caso clinico qui presentato riguarda una procedura di angioplastica di un’arteria femorale superficiale occlusa ottenuta utilizzando come mezzo di contrasto l’iniezione di CO2 in un paziente con severa riduzione del filtrato glomerulare. Nonostante la complessità della procedura, che ha richiesto un doppio accesso vascolare, popliteo retrogrado e femorale, si è ottenuto un buon risultato angiografico finale utilizzando una limitata dose di mezzo di contrasto iodato e senza peggioramento degli indici di funzione renale in fase post-procedurale. Partendo dalla presentazione del caso clinico, Paolo Sbarzaglia et al. fanno una attenta disanima della letteratura disponibile riguardo all’uso di CO2 come mezzo di contrasto nell’interventistica vascolare periferica. Emerge dal testo come l’impiego della CO2 come mezzo di contrasto sia ormai considerato un’alternativa per l’interventistica aorto-iliaca, femoro-poplitea e dei vasi di gamba, in particolare per quei pazienti che presentino ipersensibilità allergica documentata al mezzo di contrasto iodato e con insufficienza renale moderata-severa. La CO2 appare infatti un mezzo di contrasto ideale perché biocompatibile, a bassa viscosità e rapida eliminazione dal sangue per via polmonare. A fronte quindi dell’assenza di nefro- ed epatotossicità e di dimostrata allergenicità, appare evidente come l’utilizzo della CO2 possa ridurre sensibilmente l’impiego di mezzo di contrasto tradizionale e di conseguenza anche l’incidenza di nefropatia da contrasto. Una curva di apprendimento degli operatori è però indispensabile al fine di ottenere immagini radiologiche affidabili. Quelle riportate nell’articolo ne sono la dimostrazione. •