In questo numero

processo ai grandi trial




Lo studio EUROMAX
L’utilizzo degli anticoagulanti è una componente fondamentale del trattamento farmacologico dei pazienti con infarto miocardico acuto con sopraslivellamento del tratto ST (STEMI) che vanno incontro a rivascolarizzazione con angioplastica primaria. Ma non sono soltanto importanti il tipo di molecola utilizzata ed il suo dosaggio: anche la tempistica di somministrazione, così come per i farmaci antiaggreganti, ha un ruolo nella gestione clinica del paziente e nel processo decisionale. Nel trial randomizzato in fase IIIb EUROMAX è stato valutato l’utilizzo precoce, già sull’ambulanza, della bivalirudina, un anticoagulante inibitore diretto della trombina, in pazienti con STEMI in previsione di angioplastica primaria. La terapia con bivalirudina è stata confrontata con la somministrazione di eparina associata o meno ad un inibitore della glicoproteina IIb/IIIa. I risultati mostrano una riduzione di sanguinamenti maggiori e/o morte a 30 giorni in favore della bivalirudina, a discapito però di un aumentato rischio di trombosi acuta di stent, così come si era verificato nello studio HORIZONS-AMI (pubblicato nel 2008 in epoca precedente alla diffusione di ticagrelor e prasugrel), che aveva valutato la strategia di associazione con bivalirudina e clopidogrel.
Alberto Menozzi e Stefano Savonitto discutono i punti salienti dello studio, mettendone in luce gli aspetti più critici, inclusi i limiti metodologici, come il disegno non in cieco, la modifica in corso di studio dell’endpoint primario originale, la definizione non univoca dei sanguinamenti. Questo trial affronta la questione sulla sicurezza ed efficacia della somministrazione precoce della terapia farmacologica in pazienti con STEMI, problematica molto attuale e ripresa in questo stesso numero anche dalla rassegna sull’utilizzo upstream della terapia antiaggregante, sempre in corso di STEMI. •

rassegne




Coronarografia d’urgenza in pazienti rianimati da arresto cardiaco extraospedaliero

L’arresto cardiaco extraospedaliero è un evento purtroppo non infrequente e di grande impatto sulla comunità. In questa rassegna Ilaria Armellini et al., attraverso un’approfondita revisione della letteratura, discutono quali siano le indicazioni alla coronarografia d’urgenza in pazienti rianimati da arresto cardiaco extraospedaliero. La causa più frequente di questo temibile evento sembra infatti essere rappresentata dall’ischemia miocardica acuta, con evidenza agli studi autoptici di lesioni coronariche con componente trombotica in circa l’80% dei soggetti. L’impatto prognostico di questa procedura sembra essere rilevante non solo in pazienti che dopo il ripristino di circolazione spontanea mostrano alterazioni elettrocardiografiche diagnostiche di infarto miocardico acuto con sopraslivellamento del tratto ST, ma anche, per quanto più dibattuto, in soggetti senza sopraslivellamento del tratto ST. Sono molte infatti le situazioni in cui l’ECG post-rianimazione può non essere chiaramente diagnostico per ischemia, come nel caso dell’occlusione trombotica dell’arteria circonflessa, o per la presenza di anomalie elettrocardiografiche legate alla prolungata ischemia, alle manovre rianimatorie protratte, alla somministrazione endovenosa di farmaci o ad alterazioni elettrolitiche e dell’equilibrio acido-base. Viene poi sottolineata l’importanza della fase immediatamente successiva alla rianimazione, la cosiddetta post-resuscitation care, nella quale spicca il ruolo dell’ipotermia terapeutica per la neuroprotezione dal danno cerebrale anossico, e l’eventuale utilizzo di supporto meccanico al circolo. Interessante la discussione sulle questioni ancora aperte, in particolare sulla selezione dei pazienti senza sopraslivellamento del tratto ST, popolazione nella quale sono presenti dati molto incoraggianti ma non ancora conclusivi a favore di questa procedura, e che per il momento viene valutata caso per caso in base al giudizio del clinico.  •




Doppia terapia antiaggregante: qual è il momento migliore?

Nel contesto dell’infarto miocardico acuto con sopraslivellamento del tratto ST (STEMI) la tempistica riveste un ruolo estremamente rilevante, come discusso già nel trial sotto processo di questo mese, l’EUROMAX. Anche le attuali linee guida della Società Europea di Cardiologia sulla gestione dello STEMI sottolineano l’importanza del tempo nel processo decisionale, dalla diagnosi al trattamento. Sempre le linee guida indicano di utilizzare come terapia antiaggregante, in aggiunta all’aspirina, un antagonista del recettore piastrinico dell’ADP, quale il ticagrelor, il prasugrel o il clopidogrel, suggerendone la somministrazione “il più presto possibile” , quindi prima dell’angioplastica primaria. Ma quali sono le evidenze alla base di questa indicazione? A questa domanda cercano di rispondere Marco Ferlini et al., che ci presentano un’analisi approfondita della letteratura, in cerca dei principali studi e registri che abbiano validato l’utilizzo upstream, ovvero a monte della procedura di rivascolarizzazione, delle tienopiridine e del ticagrelor. In questa rassegna vengono inoltre descritte le proprietà farmacocinetiche e farmacodinamiche di questi antiaggreganti orali, con le loro caratteristiche di biodisponibilità e tempi di raggiungimento dell’inibizione dell’aggregazione piastrinica massima, nozioni spesso ignorate anche dagli addetti ai lavori, che somministrano quotidianamente questi farmaci. •

studi osservazionali
Articolo del mese




Fibrillazione atriale:
the Italian way
La fibrillazione atriale (FA) rappresenta una delle principali problematiche che il cardiologo si trova ad affrontare quotidianamente, sia per la sua alta prevalenza, sia per la complessità di gestione che presenta. L’utilizzo degli anticoagulanti orali per la prevenzione degli eventi tromboembolici e le conseguenti difficoltà in termini di aderenza alla terapia, sono tuttora dei punti cruciali di questa frequente patologia. In questo studio osservazionale Raffaele De Caterina et al. ci presentano i dati della visita basale dei pazienti italiani inclusi nel Registro Europeo PREFER in AF (PREvention oF thromboembolic events – European Registry in Atrial Fibrillation), che ha valutato insieme alle caratteristiche cliniche dei pazienti con FA, l’aderenza alle linee guida nella prescrizione della terapia anticoagulante orale, la qualità di vita e il grado di soddisfazione al trattamento dei pazienti. Dalle informazioni contenute nel registro è possibile confrontare i dati della popolazione italiana – fra l’altro la più numerosa del registro con ben 1888 pazienti – con quelli degli altri paesi europei partecipanti. Dai risultati emersi la nostra realtà non brilla per aderenza alle linee guida, ed è interessante notare le differenze rispetto agli altri paesi europei in termini di incidenza di eventi clinici e ospedalizzazioni, utilizzo degli anticoagulanti orali, numero di misurazioni dell’INR, qualità del controllo dell’anticoagulazione e grado di soddisfazione dei pazienti. Lo studio fornisce ottimi spunti che ci mostrano quanto margine ci sia ancora per ottimizzare alcuni aspetti critici nella gestione della FA, al fine di ridurre quanto più possibile l’impatto di questa aritmia sulla prognosi e sulla qualità di vita dei pazienti. L’articolo è offerto alla discussione attraverso la piccola posta (piccolaposta@giornaledicardiologia.it) fino alla fine del mese di marzo.
Il commento editoriale di Giuseppe Di Pasquale et al. consente inoltre di addentrarci più in profondità nella comprensione dei potenziali bias di selezione di questi registri, e in generale nei vantaggi e limiti dell’utilizzare questi strumenti epidemiologici per fotografare la realtà di alcune patologie. •




Panta rei
. Tutto scorre, o quasi: il fenomeno del no-reflow
Il fenomeno del no-reflow miocardico fu descritto per la prima volta nel 1974 da Kloner e collaboratori su modello sperimentale. Essi dimostrarono, grazie alla microscopia elettronica, che l’ischemia prolungata e la successiva ricanalizzazione di un’arteria epicardica possono determinare un significativo danno microvascolare. Dal punto di vista clinico, il fenomeno del no-reflow rappresenta una problematica nota e complessa in pazienti con sindrome coronarica acuta sottoposti a rivascolarizzazione, in quanto questi pazienti mostrano più frequentemente le complicanze precoci e tardive dell’infarto miocardico acuto, quali aritmie maligne e rimodellamento del ventricolo sinistro, con tassi di mortalità a breve e medio termine significativamente superiori rispetto ai pazienti con riperfusione efficace.
In questo studio osservazionale retrospettivo di Alessandro Durante et al. è riportata l’ampia casistica di oltre 19 000 procedure eseguite presso l’Ospedale San Raffaele di Milano dal gennaio 1998 al novembre 2010, di cui una minoranza (circa 1250) in corso di infarto acuto con sopraslivellamento del tratto ST (STEMI). Anche in questa numerosa popolazione la presenza di no-reflow costituisce un fattore prognostico sfavorevole in termini sia di morbilità che di mortalità. Inoltre questo studio sottolinea l’impatto prognostico del no-reflow non solo a breve ma anche a lungo termine, evidenziando dopo un follow-up di 8.9 anni un’aumentata incidenza di decessi, di ricoveri per scompenso cardiaco e di nuovi infarti miocardici nei pazienti con STEMI che avevano presentato no-reflow. Un altro aspetto interessante è l’osservazione emersa da questa casistica della possibilità di un no-reflow anche in casi di angioplastica non primaria, seppure in una percentuale molto bassa di pazienti; una problematica fino ad ora raramente presa in considerazione, ma che può coinvolgere una quota significativa di pazienti in termini assoluti, considerando l’alto numero di procedure elettive effettuate routinariamente. •




Sistemi di assistenza ventricolare: è possibile un nuovo approccio?
L’impiego di sistemi di assistenza ventricolare (VAD) per il trattamento di pazienti con insufficienza cardiaca terminale è in continuo aumento. Il sistema di assistenza circolatoria CircuLite Synergy è un VAD a flusso continuo, che può essere impiantato senza necessità di circolazione extracorporea, in minitoracotomia destra. Il dispositivo fornisce un supporto emodinamico parziale, coadiuvando e non sostituendo la funzione cardiaca nativa. Il vantaggio di un simile dispositivo risiede nella necessità di una procedura di impianto meno invasiva, che potrebbe consentire di allargare l’impiego dei VAD anche a pazienti con insufficienza cardiaca avanzata ma non terminale, o ai pazienti più fragili. In questo studio osservazionale di Alessandro Barbone et al. sono presentati i dati intermedi del trial clinico in corso per ottenere il marchio CE, con focus sull’analisi del sottogruppo di pazienti di età ≥70 anni. I risultati sembrano incoraggianti, sia per quanto riguarda i parametri emodinamici valutati a 3 mesi, che per la capacità funzionale, con miglioramento della performance nel test del cammino dei 6 minuti e nel test da sforzo. Questo dispositivo, concepito quindi come un sistema miniaturizzato di assistenza ventricolare parziale per pazienti con insufficienza cardiaca avanzata, ma non tale da giustificare l’impianto di un VAD tradizionale, apre un capitolo estremamente interessante e potenzialmente assai controverso nel campo dell’assistenza ventricolare. L’approccio ad un’assistenza ventricolare “precoce” potrebbe infatti modificare le indicazioni all’impianto dei VAD, aumentando in modo significativo il numero di pazienti potenzialmente beneficianti di questi dispositivi. Il dibattito è aperto, come testimonia il commento editoriale di Maria Frigerio che, pur sottolineando le promettenti potenzialità di questo approccio, ne mette in luce alcune possibili debolezze ed i punti ancora da chiarire. •

caso clinico




Senza fili: una doppia sostituzione valvolare con valvola aortica
sutureless
La stenosi valvolare aortica è ormai la valvulopatia più frequente nel mondo occidentale, con una prevalenza che aumenta di pari passo all’invecchiamento della popolazione. Quando ad essa si accompagna anche una significativa compromissione della valvola mitrale, tale da rendere necessaria una doppia sostituzione valvolare mitro-aortica, diventa una vera sfida per il cardiochirurgo, anche perché in questi casi le tecniche mini-invasive sono difficilmente applicabili. In questo numero Francesco Pollari et al. riportano il caso – primo in letteratura – di una paziente di 78 anni ad alto rischio chirurgico, affetta da steno-insufficienza mitro-aortica severa post-reumatica, trattata efficacemente con impianto di protesi mitralica biologica e protesi valvolare aortica sutureless. Le protesi “sutureless”, che non hanno necessità di essere suturate, sono il frutto dello sviluppo di tecnologie altamente innovative e sono ormai una realtà nella pratica cardiochirurgica. Sono realizzate in nitinolo, una lega di nichel e titanio a memoria di forma, che può essere modellata a piacimento in acqua fredda e che, una volta posizionata la valvola nel punto desiderato, viene immersa in acqua calda, che la fa irrigidire ed aderire all’anulus aortico affinché assuma la sua forma finale. Il numero sempre più ampio di pazienti valvulopatici ad alto rischio chirurgico, sia per l’età che per le comorbilità e per lo stato di “fragilità”, pone quotidianamente nuove problematiche di gestione, aprendo inaspettati possibili orizzonti, con la necessità di trovare soluzioni sempre più personalizzate e a misura del singolo paziente. •