L’editore schivo che collezionava riviste

Uno dei romanzi più belli degli ultimi mesi è, almeno per molti lettori, Città aperta. L’autore, il giovane afroamericano Teju Cole, si è divertito a parodiare su Twitter il Dizionario dei luoghi comuni di Flaubert e qualche giorno fa ha scritto: «Giornali: lamentarne la progressiva scomparsa. In realtà non comprarne nessuno». La sintesi tipica dei social network sottolinea una questione importante della comunicazione che è di particolare attualità in campo scientifico: il numero di riviste aumenta di circa il 3% l’anno ma la familiarità del medico con la letteratura scientifica sembra essersi ridotta rispetto al passato. In altre parole: sempre più riviste, sempre meno lettori.
Ci sono molte ragioni: i medici non hanno tempo, i malati sono sempre più anziani e i quadri clinici difficili, non ci sono i computer o sono poco accessibili. Ma c’è qualcosa in più, che chiama in causa la credibilità della cosiddetta “Academic Medicine” e anche il Giornale Italiano di Cardiologia – promuovendo un workshop all’ultimo congresso ANMCO – ha voluto discutere di alcune delle questioni che agitano l’editoria professionale.
È un mondo che ha dovuto adeguarsi a molti cambiamenti così che oggi il target degli editori è il medico che scrive molto di più del medico che legge. È un mutamento di prospettiva radicale e non è casuale che molte importanti aziende editoriali siano diventate un assett di proprietà di finanziarie impersonali: equity fund che investono sulla base di business plan centrati sui modelli di publishing (prevalentemente “open access” nella versione gold, cioè con costi di pubblicazione a carico degli autori) piuttosto che sul merito della programmazione editoriale.
Molto è cambiato anche nel nostro Paese: diverse aziende sono passate di mano, altre non hanno retto alla concorrenza internazionale. Anche solo per motivi di età, gli editori che hanno contribuito nel secondo dopoguerra a ricostruire il sapere scientifico del nostro Paese, stanno lasciandoci. Alla fine di luglio, se ne è andato un protagonista schivo dell’editoria medica italiana, Francesco De Fiore, che dalla fine degli anni ’50 è stato prima direttore e poi amministratore delegato del Pensiero Scientifico Editore, una tra le più antiche case editrici italiane e tra le poche ad aver conservato, a distanza di quasi settanta anni dalla fondazione, una gestione familiare.
De Fiore ha coltivato lungo tutta la vita una personale passione per le riviste, considerate sin da giovane il mezzo elettivo della comunicazione. Ha lasciato una biblioteca privata ricca di collezioni di periodici letterari vicini ai propri interessi – da Cinema a Civiltà delle macchine, dalla Fiera letteraria a L’Indice dei libri del mese – e, sul lavoro, ha costruito un catalogo di periodici medici che per alcuni decenni è stato tra i più completi d’Europa anche in virtù della collaborazione con case editrici internazionali. Basti pensare alle serie dei Seminars coediti con Grune & Stratton o alle Clinics of North America della WB Saunders, molte delle quali erano tradotte dal Pensiero. Accanto ad esse, molte e originali esperienze italiane come quella di Medicina illustrata o la Rivista degli ospedali che dal 1969 contribuì a preparare il terreno per una nuova sanità pubblica.
E quella forse più amata – perché con essa nacque la casa editrice: Recenti Progressi in Medicina. Come sottolinea un ricordo pubblicato proprio su quelle pagine, De Fiore era tanto appassionato coach di comitati editoriali, quanto instancabile lettore di narrativa e di saggistica politica; molto più discontinuo referee di letteratura specialistica, invece: per questo, si affidava ad amici nei quali riponeva assoluta fiducia, clinici che sceglievano di far pubblicare alla casa editrice ciò che avrebbero desiderato ... poter vedere nella propria biblioteca. Era, del resto, quanto avveniva in gran parte delle aziende editoriali italiane; in quelle prime tre decadi del secondo dopoguerra le rotte erano dettate da desideri di lettori, non certo dalle attese economiche di industriali. Fu così che ai cardiologi italiani fu data la possibilità – dopo soli pochi mesi dalla pubblicazione originale – di leggere Demetrio Sodi Pallares o Edmund H. Sonnenblick, proposti in un catalogo centrato soprattutto sugli aspetti fisiopatologici delle malattie cardiovascolari. Anche per la linea “cardiologica” della casa editrice, però, questi testi erano il completamento di un periodico, Progressi in Patologia Cardiovascolare, che ogni due mesi proponeva approfondimenti monografici su questioni particolarmente controverse.
Tutto ruotava, però, intorno alla stella polare della Medicina Interna, della quale la Cardiologia era considerata parte fondante. Una delle preoccupazioni era quella di preservare una visione unitaria e comprensiva nell’accostarsi, da parte del medico, alla persona malata. Era il modo con cui De Fiore rendeva compatibili la necessità di svolgere al meglio il proprio lavoro e la sua grande passione per la letteratura e le scienze umane. In linea con uno scrittore da lui molto amato, Ennio Flaiano, che sosteneva che la felicità è desiderare ciò che si ha.

Il Comitato Editoriale
del Giornale Italiano di Cardiologia