In questo numero

processo ai grandi trial




Lo studio ATLAS ACS 2-TIMI 51:
un nuovo pezzo nel
puzzle della prevenzione secondaria
L’utilizzo di nuovi farmaci, soprattutto di potenti antipiastrinici orali, ha migliorato nettamente la prognosi ospedaliera dei pazienti affetti da sindrome coronarica acuta (SCA). Ciononostante, il numero di eventi trombotici successivi rimane elevato e poco influenzato dalle terapie somministrate dopo la dimissione. Da questa osservazione, nonché dalla nota plausibilità fisiopatologica, nasce l’ipotesi dell’utilizzo di una triplice terapia antitrombotica (doppia antiaggregrazione piastrinica in associazione ad un anticoagulante orale) al fine di ridurre l’incidenza di recidive ischemiche post-SCA.
Nello studio ATLAS ACS 2-TIMI 51, 15 526 pazienti con SCA di recente insorgenza sono stati randomizzati a ricevere rivaroxaban, un potente inibitore orale diretto del fattore Xa, al dosaggio di 2.5 o 5 mg bid o placebo per un periodo medio di 13 mesi. Il rivaroxaban è risultato associato ad una significativa riduzione dell’endpoint primario di efficacia (un endpoint composito di morte cardiovascolare, infarto miocardico o ictus), rispetto al placebo, sia al dosaggio di 2.5 mg che di 5 mg bid. La dose di 2.5 mg bid di rivaroxaban ha determinato una riduzione della mortalità cardiovascolare per ogni causa, mentre nessun beneficio in termini di sopravvivenza è stato osservato con la dose di 5 mg bid, a discapito di un incremento dei sanguinamenti maggiori per entrambi i dosaggi testati.
Questo studio presenta un duplice merito poiché non solo riporta l’attenzione sul ruolo dell’inibizione trombinica nella prevenzione delle recidive di SCA, ma allo stesso tempo dimostra, dopo anni di ricerca, che il giusto connubio tra terapia antiaggregante e anticoagulante è possibile, aprendo un nuovo scenario nella prevenzione secondaria delle SCA. Gianni Casella e Diego Ardissino ci accompagnano sapientemente nel complesso percorso della triplice terapia antitrombotica in prevenzione secondaria in un appassionato processo a questo importante trial. •




CE-MARC, la diagnosi non invasiva di ischemia miocardica al bivio.
Ovvero: risonanza magnetica cardiaca contro scintigrafia miocardica

La dimostrazione di ischemia miocardica è da sempre elemento cruciale nella valutazione dei pazienti con sospetta angina pectoris. Prospetticamente diverrà sempre più rilevante anche nel guidare le procedure di rivascolarizzazione miocardica nei pazienti con anatomia coronarica nota.
La scintigrafia miocardica (SPECT), da sforzo o da stress farmacologico, rappresenta una delle metodiche più utilizzate e negli anni ha acquisito un importante valore anche prognostico. Tuttavia, più recentemente, grazie anche al progresso tecnologico ed alla possibilità di utilizzare stress farmacologici, la risonanza magnetica cardiaca (RMC) è entrata prepotentemente tra le metodiche disponibili per la diagnosi di ischemia miocardica. Lo studio CE-MARC pubblicato su Lancet nel 2012 è il primo studio randomizzato che confronta RMC e SPECT in un ampio numero di pazienti con sospetta cardiopatia ischemica, utilizzando la coronarografia come standard di riferimento per la diagnosi di coronaropatia. Il CE-MARC è il primo trial a confrontare le due metodiche in termini di sensibilità e specificità, e come un moderno navigatore satellitare sembra indicarci senza indugi quale strada intraprendere, anche in considerazione delle potenziali controindicazioni e dei rischi associati alle due tecniche. Tuttavia, da bravi automobilisti, per non trovarci all’improvviso a “fare un’inversione di marcia appena possibile”, nel processo al CE-MARC abbiamo preferito farci indicare la strada anche da due tra i massimi esperti delle metodiche quali Massimo Lombardi e Roberto Sciagrà. L’importante in questi casi è non perdersi. •

rassegne




La risonanza magnetica nelle cardiomiopatie: dimmi che
delayed enhancement hai e ti dirò chi sei ...
Negli ultimi decenni la diffusione della risonanza magnetica cardiaca (RMC) da una parte e della genetica dall’altra hanno notevolmente ampliato la nostra conoscenza delle cardiomiopatie, al punto da rendere necessaria una nuova classificazione da parte dell’ESC nel 2007. Lo studio mediante risonanza magnetica delle diverse forme di cardiomiopatia ha permesso di incrementare le possibilità diagnostiche, fornendo informazioni aggiuntive rispetto alla semplice definizione morfo-funzionale. In particolare lo studio post-contrastografico ( delayed enhancement) consente in molti casi di ottenere anche una caratterizzazione tissutale e di definire quindi l’eziologia di molte cardiomiopatie o quantomeno di indirizzare meglio l’iter diagnostico. Infatti, numerosi studi di confronto tra quadro RMC ed esame istologico del tessuto miocardico hanno permesso di associare alcuni pattern di delayed enhancement a determinate patologie, e quindi di diagnosticare con buona sensibilità e discreta specificità ed in modo non invasivo molte cardiomiopatie. A questo si aggiunga il crescente valore prognostico che ha assunto la presenza di fibrosi in molte condizioni patologiche e si comprenderà come la RMC sia ormai un esame essenziale nella valutazione diagnostica e prognostica del paziente con sospetta cardiomiopatia. Un esame da eseguire all’inizio dell’iter diagnostico, in quanto in alcuni casi può rendere inutili altri esami maggiormente invasivi.
Tale rilevanza diagnostica e prognostica imporrà a breve-medio termine, una maggior diffusione della metodica ed una miglior formazione e specializzazione del personale dedicato alla RMC. Questi ed altri aspetti vengono affrontati da Giancarlo Casolo et al. in questa interessante rassegna, che illustra le potenzialità diagnostiche e prognostiche della RMC, descrivendo i quadri tipici di ogni cardiomiopatia in termini soprattutto di delayed enhancement. Insomma, dimmi che delayed enhancement hai e ti dirò chi sei ... •




Risonanza magnetica nei pazienti portatori di dispositivi meccanici:
per alcuni, per molti, ma non ancora
per tutti

Miroslav Mandic è un signore serbo, balzato all’onore delle cronache come uomo-magnete, in quanto capace di mantenere attaccati al suo corpo monete, telefoni cellulari, cucchiai e altri oggetti di metallo. Sebbene il caso in questione e casi analoghi non siano in realtà riconducibili ad un vero fenomeno magnetico, è invece reale il problema quotidiano delle interazioni tra dispositivi metallici impiantabili e campi magnetici ad uso diagnostico. Infatti, nella pratica clinica di tutti i giorni veniamo spesso interpellati da pazienti e colleghi riguardo alla compatibilità tra pacemaker, defibrillatori, stent, protesi valvolari o vascolari e l’esecuzione di una risonanza magnetica di vari distretti dell’organismo. L’interazione di questi dispositivi con il campo magnetico della risonanza può esporre il paziente a dei rischi ed inficiare la resa diagnostica dell’esame. Il problema è quindi rilevante e destinato nel breve termine ad aumentare, visto da un lato l’incremento costante delle indicazioni alla risonanza magnetica in tutti i settori della medicina e dall’altro il crescente numero di pazienti cardiopatici portatori di dispositivi meccanici di varia natura. La risposta al quesito è spesso difficile e non sempre immediata, perché i dispositivi oggi disponibili sono numerosi e diversi tra loro, così come sono diversi i parametri utilizzati durante la risonanza magnetica, ed anche perché le terminologie relative alla certificazione di sicurezza sono spesso disomogenee. Ad esempio la nuova classificazione dei dispositivi esposti a risonanza magnetica dell’American Society for Testing and Materials International distingue dispositivi RM safe, RM conditional e RM unsafe.
Alberto Roghi ci guida dispositivo per dispositivo attraverso questa “giungla magnetica”, fornendoci indicazioni pratiche per gestire al meglio l’esecuzione della risonanza magnetica in pazienti portatori di dispositivi meccanici. Questo in attesa che aumenti il numero di dispositivi compatibili con una esecuzione non solo sicura, ma anche efficace dal punto di vista diagnostico, della risonanza magnetica cardiaca. •




Dolore anginoso e coronarie normali: diagnosi semplice di una patologia complessa

Il riscontro angiografico di coronarie esenti da lesioni stenosanti o affette da lesioni aterosclerotiche definite non emodinamicamente significative caratterizza una discreta percentuale di pazienti con storia di angina. A definire questo quadro concorrono differenti e complesse patologie che sottintendono atteggiamenti terapeutici e dati prognostici molto diversi tra loro, e giustificano approcci diagnostici differenziati e ragionati. In questa rassegna, Vincenzo Cicchitti e Raffaele
De Caterina
passano in esame somiglianze e differenze tra i diversi quadri che convergono nell’ampia definizione di angina con coronarie normali, definendone le caratteristiche cliniche e fisiopatologiche, gli strumenti diagnostici e le terapie più adeguate ad ogni singola categoria nosologica descritta. •




Colchicina, un estintore per il cuore in fiamme da tenere in sala operatoria? Dalla sindrome postpericardiotomica alla fibrillazione atriale postoperatoria, evidenze dal trial COPPS e sottostudi

La sindrome postpericardiotomica, i versamenti pericardici e pleurici postoperatori e la fibrillazione atriale postoperatoria rappresentano importanti complicanze degli interventi di cardiochirurgia, che interessano mediamente un quarto dei pazienti. Tali complicanze determinano in molti casi un ritardo del pieno recupero del paziente con un potenziale aumento della durata della degenza e un conseguente aggravio dei costi. L’insorgenza di fibrillazione atriale in particolare può colpire dal 10% al 50% dei pazienti e richiede spesso importanti misure terapeutiche farmacologiche e non. Sebbene la patogenesi di tali complicanze non sia ancora chiara ed il possibile ruolo di infezioni perioperatorie sia ancora sconosciuto e controverso, un’eziologia autoimmunitaria resta la più accreditata. In questa rassegna un esperto di patologie pericardiche quale Massimo Imazio, illustra i risultati dello studio multicentrico randomizzato COPPS, nel quale la somministrazione di colchicina per 1 mese dal terzo giorno post-intervento si è dimostrata efficace e sicura nel dimezzare ciascuna delle complicanze citate in 360 pazienti consecutivi sottoposti ad intervento cardiochirurgico. Partendo dallo studio COPPS viene discusso anche il possibile impiego della colchicina prima dell’intervento, al fine di migliorare ulteriormente l’efficacia del farmaco nel prevenire la sindrome postpericardiotomica. Se confermati su larga scala, i risultati dello studio italiano COPPS potrebbero rappresentare il presupposto per un utilizzo della colchicina come trattamento standard nella fase perioperatoria degli interventi di cardiochirurgia. Una specie di estintore sempre a portata di mano del cardiochirurgo e del cardiologo.  •

informalmente




Spalatura della neve e rischio di sindrome coronarica acuta
Giuseppe Di Pasquale e Gloria Coutsoumbas prendono spunto dalla loro casistica relativa ai primi 15 giorni dello scorso febbraio, durante i quali, in concomitanza con imponenti nevicate che hanno paralizzato la città di Bologna, sono stati ricoverati presso la loro UTIC 13 pazienti con diagnosi di sindrome coronarica acuta ed anamnesi di spalatura di neve nelle 24-48h precedenti, per scrivere un piacevolissimo quanto interessante contributo sull’argomento.
Da decenni sono state pubblicate in letteratura sporadiche ma ripetute segnalazioni di casi di infarto miocardico acuto occorso nei mesi invernali durante la spalatura della neve o nelle ore immediatamente successive. L’aumento delle richieste miocardiche di ossigeno, lo stress a carico della parete vascolare, la vasocostrizione indotta dal freddo, la riduzione della perfusione miocardica, una maggiore reattività piastrinica e l’aumento del fibrinogeno e della viscosità ematica che si verificano in conseguenza dell’esercizio fisico strenuo e del freddo intenso, sono tutte ipotesi fisiopatologiche addotte per spiegare questa inusuale associazione. Questi ed altri gli argomenti trattati dagli autori che alla fine forniscono anche utili e pratici consigli sulla prevenzione degli eventi cardiovascolari acuti negli improvvisati spalatori di neve ... •

studio osservazionale




Identificazione elettrocardiografica dell’arteria colpevole nell’infarto miocardico acuto

Al fine di valutare la capacità dell’ECG di identificare correttamente l’arteria colpevole dell’infarto miocardico acuto ed il suo livello di occlusione, Gianaugusto Slavich et al. hanno effettuato una revisione della letteratura e sviluppato un algoritmo, la cui accuratezza è stata testata retrospettivamente ed in cieco su una casistica di 343 pazienti consecutivi, tutti sottoposti ad angioplastica primaria nel corso di un triennio. La corretta identificazione dell’arteria colpevole è stata ottenuta nell’87.5% dei casi con una buona specificità e sensibilità, soprattutto per i territori del ramo interventricolare anteriore e della coronaria destra. Tali risultati sembrano quindi confermare che l’interpretazione dell’ECG, non invasiva, disponibile ovunque, poco costosa e di rapida esecuzione e interpretazione, è affidabile nell’identificare l’arteria colpevole ed il suo livello di occlusione, con potenziali risvolti nella scelta delle appropriate strategie gestionali nei pazienti con infarto miocardico acuto.  •

controversie in medicina cardiovascolare




Il contropulsatore aortico nelle sindromi coronariche acute: il confine sottile tra uso ed abuso
L’incidenza di mortalità tra i pazienti affetti da infarto miocardico acuto complicato da shock cardiogeno rimane ancora molto elevata anche quando questi pazienti vengono rivascolarizzati precocemente. Il contropulsatore aortico è a tutt’oggi lo strumento più utilizzato di supporto emodinamico meccanico nella pratica clinica. Nelle attuali linee guida americane ed europee, l’uso del contropulsatore aortico per il trattamento dello shock cardiogeno è raccomandato con una classe IB ed IC, rispettivamente. Ciononostante, le evidenze sul suo utilizzo derivano principalmente da dati di registri e sino a poco tempo fa mancava un trial clinico randomizzato con un adeguato potere statistico che valutasse l’impatto prognostico della metodica in questo gruppo di pazienti ad elevato rischio di eventi cardiovascolari a breve termine. Tali evidenze non conclusive sono solo una delle possibili spiegazioni da addurre all’attuale utilizzo del contropulsatore aortico nel 25-40% dei pazienti affetti da shock cardiogeno, malgrado le forti raccomandazioni delle linee guida.
In questo numero del Giornale, Giovanni Melandri e Maddalena Lettino passano in rassegna le evidenze disponibili, tracciando il delicato confine tra uso ed abuso di una metodica con i presupposti teorici, caratteristiche e peculiarità ideali per il trattamento dei pazienti in shock cardiogeno. •

caso clinico




Ischemia microvascolare acuta

Alberto Cappelletti et al. descrivono un caso di sopraslivellamento acuto del tratto ST durante una crisi ipertensiva in un paziente di 73 anni con severa ipertrofia ventricolare sinistra ed un albero coronarico esente da lesioni, o evidenze di trombosi o vasospasmo coronarico. Il quadro clinico ed elettrocardiografico si è progressivamente risolto dopo la riduzione dei valori pressori mediante somministrazione endovenosa di nitrati. Sulla base di questi dati, gli autori ipotizzano che l’improvviso aumento del postcarico associato al picco pressorio, in presenza di una concomitante disfunzione microvascolare, abbia indotto un’ischemia miocardica transmurale. •