La coagulopatia nel COVID-19:
basi fisiopatologiche

Simona Pierini1, Eufemia Incampo1, Daniela Bokor1, Viola Dadone1, Maurizio Ornaghi1,
Fabio Zanini2, Francesco Gentile1, Sandro Mancarella2

1U.O.C. Cardiologia-UTIC, 2U.O.C. Medicina,

ASST Nord Milano, Ospedale Bassini, Cinisello Balsamo (MI)

On March 11, 2020, just after 2 months from the first cases of coronavirus disease 2019 (COVID-19) in China, the Director-General of the World Health Organization stated that COVID-19 has to be considered as a pandemic. Italian doctors were the first protagonists, after the Chinese ones, in the management of this disease. Clinical observations showed that, in addition to the respiratory infection, a systemic inflammatory response occurs, which leads to coagulation disorders and consequent venous thromboembolism as well as other thrombotic complications. We here review the available literature on this issue to better understand the pathophysiological mechanisms of coagulopathy useful to draw future clinical and therapeutic conclusions.

Key words. Coagulation abnormalities; COVID-19; Sepsis; Systemic inflammatory disease; Venous thrombosis.

INTRODUZIONE

Il 31 dicembre 2019 la Commissione Sanitaria di Wuhan, nella provincia di Hubei (Cina), ha segnalato all’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) il riscontro di alcuni casi di polmonite ad eziologia ignota (www.salute.gov.it). Il 9 gennaio 2020 è stato identificato un nuovo coronavirus, denominato con l’acronimo SARS-CoV-2 (sindrome respiratoria acuta severa da coronavirus 2), come agente causale della malattia respiratoria poi denominata COVID-19. Dopo soli 2 mesi, l’11 marzo 2020 Tedros Adhanom Ghebreyesus, Direttore Generale dell’OMS, nel briefing di Ginevra, definiva la situazione come pandemica (www.who.int).

Gran parte dei medici italiani, di differenti specialità, è stata chiamata in causa nel fronteggiare questa pandemia, che ha visto la Lombardia come epicentro nazionale del fenomeno. Grandi le conquiste ottenute, in poco tempo, da diversi gruppi di lavoro, mettendo a punto protocolli operativi che hanno consentito una gestione sempre più adeguata della malattia. Il lavoro di collaborazione tra specialisti diversi è stato il punto chiave per una proficua ottimizzazione dell’approccio ai quadri più o meno gravi dell’infezione.

Le difficoltà oggettive riscontrate durante la gestione dei pazienti con infezione da SARS-CoV-2 hanno suscitato numerosi interrogativi a cui la comunità medico-scientifica sta cercando di dare una risposta. Nella fase iniziale della gestione dei pazienti si osservava spesso un momento di improvviso peggioramento clinico della malattia, con l’instaurarsi di una catena di eventi progressivamente ingravescenti fino ad un possibile esito fatale, nonostante supporti vitali ottimali. È stato man mano compreso che la manifestazione patologica dell’infezione non è solo una polmonite virale, che genera insufficienza respiratoria grave, ma in realtà una malattia sistemica complessa, multiorgano, le cui basi fisiopatologiche sono ancora in corso di definizione. È emerso inoltre che un elemento chiave della malattia, nelle fasi conclamate, è uno stato infiammatorio con effetto pro-coagulante, che peggiora ulteriormente il quadro respiratorio oppure è esso stesso alla base dell’improvviso e inarrestabile peggioramento clinico.

IL VIRUS SARS-CoV-2

I coronavirus appartengono alla famiglia dei Coronaviridae ed alla sottofamiglia di Orthocoronavirinae che è classificata in quattro generi: alpha-, beta-, delta- e gamma-coronavirus1. Sono virus capsulati con genoma ad RNA a singolo filamento, passibili di errori durante la replicazione all’interno della cellula ospite per mancanza dei meccanismi di correzione. Alcune di queste mutazioni possono conferire nuove proprietà, come la capacità di infettare altri tipi di cellule o persino nuove specie. Il virus SARS-CoV-2 appartiene al gruppo dei beta-coronavirus insieme al SARS-CoV responsabile della sindrome respiratoria acuta grave (SARS) ed al MERS-CoV responsabile della sindrome respiratoria medio-orientale (MERS). La malattia provocata dal nuovo coronavirus è detta “COVID-19” (“CO” da corona, “VI” da virus, “D” da disease e “19” indica l’anno in cui si è manifestata).

Le proteine S sulla superficie del virus sono responsabili del legame ai recettori della cellula bersaglio. Nel caso di COVID-19, il principale bersaglio sembra essere il recettore dell’enzima di conversione dell’angiotensina 2 (ACE2), particolarmente espresso a livello oro-faringeo2.

FASI DELL’INFEZIONE E SINTOMATOLOGIA

Lo sviluppo dell’infezione da SARS-CoV-2 nell’organismo avviene secondo uno schema che prevede tre fasi (Figura 1), i cui meccanismi patogenetici si stanno comprendendo man mano che si approfondiscono le conoscenze della malattia, sia in ambito clinico che sperimentale3. Fortunatamente la maggioranza degli individui colpiti da SARS-CoV-2 rimane asintomatica o presenta sintomi clinici di scarso rilievo. Solo una piccola percentuale di casi manifesta un quadro clinico grave ad esito potenzialmente fatale.

Da quanto appreso finora, i fattori determinanti l’evoluzione in senso sfavorevole della malattia sono svariati: innanzitutto la fragilità degli individui colpiti (età avanzata, obesità, presenza di comorbilità, ecc.), che condiziona una limitata capacità di sviluppare precocemente un’adeguata risposta immunitaria; in secondo luogo l’entità della carica virale contaminante a cui l’individuo viene esposto, e infine anche il tempo di diffusione del virus dalle vie aeree superiori agli alveoli polmonari4.

Il virus penetra nell’organismo attraverso “droplet” infette che si depositano nelle vie aeree e lì inizia a moltiplicarsi5. Nella prima fase i sintomi sono in genere clinicamente lievi e limitati alle vie aeree superiori, analoghi a quelli di una comune sindrome da raffreddamento (malessere, febbre, tosse secca, ecc.). Nella maggior parte dei pazienti la malattia si limita ad una sindrome influenzale, non distinguibile da manifestazioni cliniche analoghe determinate da altri virus, come i virus influenzali. Non avendo sottoposto la popolazione generale ad una ricerca a tappeto della presenza del virus nell’organismo, non siamo in grado di stimare quale sia la reale prevalenza della malattia. In una minoranza dei pazienti, dopo questa fase iniziale, il virus si può distribuire nell’organismo, infettando gli organi che presentano, sulla superficie delle cellule, i recettori ACE2, come polmone, cuore, rene, tratto gastrointestinale e sistema vascolare periferico6,7. Questa fase è caratterizzata prevalentemente da un quadro di polmonite interstiziale, molto spesso bilaterale, associata ad una sintomatologia respiratoria, che nella fase precoce è stabile e senza ipossiemia, ma che può evolvere verso una progressiva instabilità clinica con lo sviluppo di insufficienza respiratoria ipossiemica normocapnica, anche di grave entità, fino ad un quadro conclamato di sindrome da distress respiratorio acuto (ARDS).




Successivamente è possibile una ulteriore “escalation” della malattia con evoluzione verso un quadro clinico caratterizzato da una tempesta citochinica e quindi da uno stato iperinfiammatorio che determina conseguenze locali e sistemiche. Ad esso si associano, dal punto di vista degli esami di laboratorio, una riduzione progressiva dei linfociti, un marcato aumento del numero dei neutrofili ed un aumento dei marker infiammatori quali proteina C-reattiva, ferritina, interleuchina-6, proteina 10 indotta dall’interferone-gamma (IP-10), proteina chemiotattica per i monociti (MCP-1), MCP-1A, fattore di necrosi tumorale-α8,9.

Dall’esperienza clinica, inoltre, si è osservato che la malattia può talora presentarsi con una sintomatologia aspecifica e molto varia, che può essere di accompagnamento ai sintomi respiratori o essere anche l’unica espressione della malattia. Molti pazienti presentano dolori toracici e mialgie associati a iperpiressia, senza dei riscontri obiettivi e strumentali. Molto frequentemente si sono osservati ageusia e anosmia, verosimilmente legati ad un neurotropismo del virus stesso.

Riassumendo nella malattia da COVID-19 possiamo identificare tre fasi distinte, che possono evolvere progressivamente:

• fase viremica, caratterizzata da sintomi di tipo influenzale;

• fase polmonare, di gravità molto variabile;

• fase iperinfiammatoria, caratterizzata da un coinvolgimento multiorgano, a prognosi potenzialmente infausta.

LA COAGULOPATIA: EVIDENZE CLINICHE
ED ANATOMO-PATOLOGICHE

Parallelamente all’aggravamento dello stato infiammatorio può comparire uno stato di ipercoagulabilità sistemica e di trombofilia, caratterizzato dalla tendenza alla trombosi venosa, arteriosa e microvascolare10. A livello laboratoristico si riscontrano frequentemente elevati livelli di D-dimero e, più raramente, modeste alterazioni del fibrinogeno, un lieve prolungamento del tempo di protrombina con valori vicino alla norma di tempo di tromboplastina parziale attivata. Nei casi più gravi è possibile l’evoluzione verso un quadro di coagulazione intravascolare disseminata.

Un recente studio olandese, condotto in 184 pazienti con COVID-19 ricoverati in terapia intensiva, ha osservato un’incidenza cumulativa di eventi trombotici venosi ed arteriosi del 31%, nonostante dosi standard di profilassi tromboembolica (intervallo di confidenza [IC] 95% 20-41%): nel 27% (IC 95% 17-37%) le manifestazioni erano eventi embolici polmonari o periferici, mentre solo il 3.7% era rappresentato da eventi trombotici arteriosi (IC 95% 0-8.2%). L’embolia polmonare rappresentava la complicanza trombotica più frequente (n = 25, 81%)11. Dati simili sono stati segnalati in un secondo studio olandese, dove l’incidenza di eventi tromboembolici in 198 pazienti ricoverati per COVID-19 era del 20% e saliva al 47% nei pazienti ricoverati in terapia intensiva; in questa casistica l’incidenza di embolia polmonare in rianimazione era pari al 15% (n = 11)12.

Svariate esperienze cliniche hanno evidenziato una correlazione significativa, oltre che tra i livelli di D-dimero e le manifestazioni tromboemboliche venose, anche tra i livelli di D-dimero e la prognosi infausta13.

Studi autoptici preliminari cinesi e americani hanno mostrato a livello polmonare, accanto ad edema diffuso, congruo con un quadro di ARDS, fenomeni microangiopatici, emorragici e trombotici. I polmoni studiati si caratterizzavano per un importante e diffuso danno alveolare, con presenza di un numero consistente di linfociti CD4+ aggregati attorno a piccoli vasi trombizzati, e per una significativa emorragia associata. A livello cardiaco si notava cardiomegalia e dilatazione ventricolare destra14,15.

In un’altra serie di autopsie condotte negli Stati Uniti16 è stato riscontrato che in pazienti con elevati livelli di D-dimero vi era uno stato pro-coagulante, oltre che nei polmoni, anche a livello cutaneo con evidenza di trombosi microvascolare (retiform purpura o livedo racemosa) e documentazione di presenza di specifiche glicoproteine SARS-CoV-2 sia nei polmoni che nella cute (Figura 2).

Osservazione comune di vari patologi è stata quella di aver rilevato trombosi macro e microvascolari, sia sotto forma di trombi “rossi”, formati da eritrociti, leucociti e fibrina, che “bianchi”, formati da piastrine e fibrina. I microtrombi di piastrine e fibrina sono stati individuati nelle venule, arteriole, capillari di tutti gli organi maggiori, anche a livello mesenteriale10.




FISIOPATOLOGIA DELLA COAGULOPATIA

Diversi fattori contribuiscono allo sviluppo dei disordini della coagulazione nella malattia COVID-19; essi possono esprimersi a livello di ciascuno dei tre elementi che costituiscono la triade di Virchow: lesioni/disfunzioni endoteliali, ipercoagulabilità, variazioni emodinamiche (stasi, turbolenza) (Figura 3)10.

Danno virale diretto dell’endotelio vascolare

Il danno virale diretto a livello endoteliale, sia a livello della circolazione polmonare che periferica, è senz’altro determinante nell’attivazione della coagulazione17. Poiché l’endotelio è un organo con multiple funzioni ed è responsabile del mantenimento del tono e dell’omeostasi vascolare, un suo danno a vari livelli può causare una disfunzione circolatoria sistemica caratterizzata da vasocostrizione, con conseguente ischemia degli organi interessati ed infiammazione del microcircolo con edema associato.




È stato dimostrato, sia all’istologia che alla microscopia elettronica, un accumulo di cellule infiammatorie ed inclusioni virali nell’endotelio del cuore, del piccolo intestino, dei reni e dei polmoni18. L’infezione virale e la risposta immunitaria determinano l’espressione di alti livelli di interferone di tipo 1, che a sua volta induce la formazione di inclusioni reticolari di glicoproteine e fosfolipidi a livello delle cellule vascolari endoteliali con conseguente danno cellulare, disfunzione ed espressione di geni protrombotici19.

Il SARS-CoV-2 è un virus a RNA ed esistono una serie di evidenze che dimostrano come la presenza di RNA extracellulare, analogamente al DNA liberato dalle cellule danneggiate10, possa essere un fattore indipendente di trombogenicità attraverso il legame con proteasi che promuovono l’attivazione di fattori della coagulazione (VII, XI, XII)20.

Lo stato iperinfiammatorio

Lo stato infiammatorio di per sé è un trigger importante per la cascata coagulativa. Monociti e cellule endoteliali attivate possono portare all’espressione del fattore tissutale con conseguente genesi di trombina. Contemporaneamente alcune citochine e chemochine pro-infiammatorie, come l’interleuchina-6, possono attivare la coagulazione, inattivare le vie anticoagulanti naturali e sopprimere la fibrinolisi21,22.

È stata individuata una similitudine con la linfoistiocitosi emofagocitica (altresì detta sindrome da eccessiva risposta infiammatoria), in cui un’eccessiva risposta flogistica secondaria all’infezione induce uno stato immunosoppressivo con down-regulation dei macrofagi e dei linfociti23. In particolare la linfoistiocitosi emofagocitica secondaria (sHLH) si configura come una sindrome iperinfiammatoria caratterizzata da un’ipercitochinemia fulminante, che può condurre ad insufficienza multiorgano con prognosi infausta. Negli adulti è scatenata frequentemente da infezioni virali e compare nel 3.7-4.3% delle forme di sepsi. Elementi cardine includono febbre, citopenia (almeno due tra anemia, piastrinopenia e neutropenia), iperferritinemia e ipofibrinogenemia. Tra le caratteristiche cliniche della linfoistiocitosi emofagocitica secondaria si evidenzia anche una coagulopatia importante (tempo di protrombina e/o tempo di tromboplastina parziale attivato ≥1.5 volte il limite normale, D-dimero ≥10.0 μg/ml)24,25.

Ipossia, viscosità ematica e ipercoagulabilità

Altro fattore rilevante nell’eziopatogenesi della coagulopatia risulta essere l’ipossia, associata alla riduzione degli scambi respiratori a livello polmonare, che può stimolare la trombosi attraverso vasocostrizione e incremento della viscosità ematica26. L’ipossia può far spostare il fenotipo basale antinfiammatorio ed antitrombotico dell’endotelio verso un fenotipo pro-infiammatorio e pro-coagulante attraverso l’espressione di fattori pro-coagulanti indotti dall’ipossia, come riportato in altre forme di ARDS27.

La febbre, la diarrea e la disidratazione, spesso presenti nel COVID-19, possono contribuire al quadro sopradescritto.

È stato inoltre suggerito, dall’analisi di tre casi clinici, che anche la comparsa di anticorpi antifosfolipidi possa giocare un ruolo nella patogenesi della coagulopatia. È stata, infatti, riscontrata la presenza di anticorpi IgA anti-cardiolipina e IgA e IgG anti-β2-glicoproteina I in associazione a coagulopatia, trombocitopenia e sviluppo di eventi ischemici periferici e cerebrali28. Harzallah et al.29 hanno studiato 56 pazienti con infezione certa o sospetta da SARS-CoV-2 e, fra questi, 25 sono risultati positivi al lupus anticoagulant, mentre 5 agli anticorpi IgM o IgG anti-cardiolipina o anti-β2-glicoproteina I. Gli anticorpi antifosfolipidi o un transitorio aumento del lupus anticoagulant sono spesso presenti durante un’infezione30. Tali dati suggeriscono che la loro identificazione in questi pazienti critici, che già di per sé hanno diversi fattori di rischio per trombosi, possa essere importante nel raccomandare un inizio precoce della terapia anticoagulante.

Ruolo delle piastrine

Infine anche la componente piastrinica della coagulazione risulta attivata durante l’infezione da COVID-19. In passato è stato osservato che il virus SARS-CoV era in grado di infettare direttamente i megacariociti modificando la funzione piastrinica nei polmoni dei pazienti con malattia severa. Attualmente non ci sono evidenze di infezione diretta dei megacariociti da parte del SARS-CoV-2; tuttavia, l’abbondante presenza di queste cellule nel tessuto polmonare autoptico è probabilmente correlata con il riscontro di diffusi piccoli trombi ricchi di piastrine. Le piastrine, infatti, possono promuovere una risposta immuno-mediata mediante il legame diretto o attraverso le proteine plasmatiche, di particelle microbiche, causando infiltrazioni tissutali e, nelle fasi critiche, trombocitopenia. Quest’ultima è sostanzialmente sempre presente nei quadri severi di malattia da COVID-19 e correla con l’insufficienza multi-organo e con la prognosi infausta31,32.

Ruolo della sepsi

Il quadro clinico della malattia COVID-19 talvolta si manifesta con quadro conclamato di sepsi, con ipotensione, ipossia ed ischemia tissutale, nonché disfunzione multiorgano. Come in tutti i quadri di sepsi, si può manifestare una coagulopatia correlata alla sepsi stessa, che può arrivare fino a un quadro di coagulazione intravascolare disseminata33.

È stato introdotto anche il concetto di coagulopatia intravascolare polmonare che evidenzia una forma di coagulopatia che si manifesta prevalentemente a livello polmonare. Il meccanismo patogenetico ipotizzato è un danno, virus-mediato, dei pneumociti di tipo II e delle cellule endoteliali polmonari, in quanto entrambi esprimono il recettore ACE2. A questo si associa la tempesta infiammatoria con generazione di trombina e deposizione di piastrine a livello dei vasi polmonari. Questo spiegherebbe i fenotipi refrattari di ARDS in cui si associa una duplice patologia che colpisce sia il versante della ventilazione che quello del sistema vascolare polmonare34.

Facendo seguito alla nuova definizione di sepsi nel documento “Third International Consensus Definitions for Sepsis and Septic Shock” (Sepsis-3), era stato suggerito un nuovo criterio per l’identificazione della coagulopatia indotta da sepsi (SIC), definito “SIC score” (Tabella 1)35,36.

L’International Society on Thrombosis and Haemostasis (ISTH) ha proposto l’utilizzo di tale score per identificare la fase precoce della coagulazione intravascolare disseminata associata a sepsi37 ed individuare pazienti che possano beneficiare di terapia anticoagulante. Il SIC score include il tempo di protrombina, la conta piastrinica e la valutazione sequenziale del danno d’organo (SOFA a 4 parametri). Uno score ≥4 è diagnostico per coagulopatia indotta da sepsi.

È stato pertanto proposto l’utilizzo di questo score anche per l’identificazione della coagulopatia indotta da COVID-19, benché sia meno affidabile rispetto a situazioni indotte da altri patogeni in quanto in questo caso, soprattutto nelle fasi iniziali di malattia, la piastrinopenia può non essere presente.

Alla luce delle osservazioni finora riportate sulla fisiopatologia della coagulopatia indotta da SARS-CoV-2 è stato suggerito da più parti di utilizzare la terapia anticoagulante come parte fondamentale dell’assetto terapeutico nei pazienti con COVID-19.




CONCLUSIONI

Tanto lavoro c’è ancora da fare per comprendere tutti i meccanismi con cui questo virus esprime la sua patogenicità. D’altro canto, grazie alla collaborazione multidisciplinare, molti aspetti stanno venendo alla luce su questa tematica. La coagulopatia è un aspetto cruciale della malattia e la prevenzione ed il trattamento della stessa possono evitare l’evoluzione verso quadri polmonari e sistemici potenzialmente irreversibili. Data la numerosità di pazienti che presentano complicanze trombotiche, che va al di là di quello che ci si aspetterebbe da infezioni respiratorie o quadri evolutivi di sepsi, verrebbe da ipotizzare che il danno vascolare sistemico determinato direttamente dal virus sull’endotelio possa essere probabilmente la causa principale della coagulopatia, che si esprime prevalentemente sul versante trombotico. Di conseguenza la coagulopatia non sarebbe tanto una complicanza di malattia, quanto come un vero e proprio elemento patogenetico primitivo dell’infezione da SARS-CoV-2.

I dati preliminari della letteratura sembrano inoltre suggerire un effetto prognostico favorevole del trattamento anticoagulante con eparina a basso peso molecolare nei pazienti affetti da questa patologia. Mancano tuttavia trial randomizzati, anche se di difficile realizzazione in questo contesto clinico, che giustifichino un reale vantaggio di un trattamento anticoagulante a dose piena in pazienti con malattia severa, a fronte di un potenziale incremento del rischio emorragico.

Ulteriori studi saranno inoltre necessari per comprendere meglio la patogenesi di questa patologia di recente comparsa.

RIASSUNTO

L’11 marzo 2020, a distanza di poco più di 2 mesi dal riscontro dei primi casi di malattia da coronavirus 2019 (COVID-19) in Cina, il direttore generale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità ha descritto tale epidemia come una situazione pandemica con migliaia di infetti e decessi correlati. Gli operatori sanitari italiani ed in particolare lombardi sono stati tra i primi protagonisti, dopo i cinesi, nella gestione della patologia. L’osservazione clinica ha mostrato come, accanto all’infezione respiratoria, vi sia un processo vascolare infiammatorio sistemico che conduce ad un’alterazione del sistema coagulativo con conseguenti fenomeni trombotici sul versante venoso, arterioso e microvascolare. Questo ci ha portato ad analizzare la letteratura disponibile per comprendere il problema da un punto di vista fisiopatologico in modo da porre le fondamenta per successivi ragionamenti clinici e terapeutici in merito.

Parole chiave. Anomalie della coagulazione; COVID-19; Malattia infiammatoria sistemica; Sepsi; Trombosi.

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