corrispondenza




Il cuore di Nicholas Green
Qualche mese fa, in un piccolo ristorante di Roma, il nostro tavolo era accanto a quello di una donna straordinariamente bella che aveva un’aria vagamente familiare. “È una celebrità della televisione”, mi disse il mio amico Andrea, “ed è sensibile alle questioni umane”. Si trattava di Alessia Marcuzzi.
Anch’io sostengo una buona causa e così, quando ci alzammo per andare via, mi scusai per aver interrotto la sua conversazione con il suo bell’accompagnatore e mi presentai come il padre di Nicholas Green, il bambino americano di sette anni che fu ucciso durante una rapina lungo l’autostrada Salerno-Reggio Calabria.
È un evento accaduto vent’anni fa, ma ero sicuro che l’avrebbe ricordato perché mia moglie Maggie e io donammo gli organi e le cornee di Nicholas a sette italiani, quattro dei quali adolescenti, e devo ancora incontrare un italiano che era adulto all’epoca e che non ricordi l’impennata di emozioni da parte dei vostri compatrioti dal cuore generoso. Sì, lo ricordava, mi disse qualche frase gentile ed io e il mio amico ce ne andammo.
Quella stessa sera, in un suo post sulla sua pagina Facebook ha raccontato del nostro incontro e della storia di Nicholas, includendo l’indirizzo internet alla pagina dell’Aido, e il giorno dopo 30 000 persone avevano messo ‘mi piace’. Settecento avevano commentato il post, la maggior parte delle quali esprimendo un appassionato sostegno alla donazione degli organi. I suoi normali post, all’epoca ricevevano in media mille ‘mi piace’.
Sì, è vero, lo sappiamo tutti, la donazione degli organi è normalmente una materia troppo remota perché sia in grado di catturare una vasta attenzione. È mia opinione, in ogni modo, che una volta che le persone ci vedono una connessione personale, una volta che vedono il lato umano insito in essa, la donazione degli organi diventa di interesse coinvolgente. Non è sorprendente: ognuno di noi potrebbe aver bisogno di un nuovo cuore, un rene o qualche altro organo vitale, o di nuovi tessuti come la pelle per curare dolorosissime ustioni, o ossa per raddrizzare una spina dorsale. In ugual modo, ognuno di noi potrebbe essere un donatore. È realmente una materia universale. Aggiungeteci che è anche una storia di vita che origina dalla morte e, così, quando è raccontata come una storia piena di umanità, come può non essere coinvolgente?
Alcune persone non hanno invece scelta se interessarsene o no: si trovano in una lunga lista d’attesa che diventa sempre più lunga, svegliandosi ogni giorno grate di essere ancora vive ma con l’ansia crescente mentre attendono che qualcuno a loro completamente sconosciuto, devastato dall’aver appena perso una persona amata, sia disponibile a mettere da parte il suo dolore per salvare la vita di persone che non ha mai incontrato. È un’attesa angosciante, resa peggiore dall’essere completamente impossibilitati ad accelerare il processo. Ogni volta che squilla il telefono le loro speranze crescono esponenzialmente e, ogni volta che non si tratta della telefonata che attendevano, l’oscurità gli si stringe intorno di nuovo.
La stragrande maggioranza delle persone che vive nei paesi più sviluppati dice di essere a favore della donazione degli organi. Eppure gli organi donati sono pochi ovunque. In parte ciò è dovuto al rapido incremento della domanda, con i medici che hanno trovato sempre più casi in cui il trapianto di un organo è la cura preferibile – e spesso l’unica. Ma dipende anche dal fatto che la situazione in cui la decisione deve essere presa è proibitiva.
Le famiglie che si trovano a dover prendere una simile decisione diventano consapevoli che nell’istante in cui dicono ‘Sì’ stanno anche dicendo addio al loro caro. Non ci si potrà più aggrappare alla speranza di una guarigione miracolosa o all’illusione di andare a fare di nuovo una tanto agognata passeggiata insieme. Ci sono molte cose che girano il coltello nella piaga quando si cerca di fare una scelta. In quello che fu l’ultimo giorno di vita di Nicholas, entrai in quella piccola stanza di ospedale per vederlo un’ultima volta e il mio cuore ebbe un sussulto: era lì, nel letto, che respirava regolarmente, il suo torace andava gentilmente su e poi scendeva. “Sta migliorando”, pensai con entusiasmo. “Devo dirlo immediatamente a qualcuno”. E poi, un secondo esatto dopo, il duro ritorno sulla terra nel rendermi conto che era stato solo un ingegnoso macchinario che respirava per lui.
Non riprese mai conoscenza. Posso ancora vedere con grande chiarezza nella mia mente i dottori, in quella stanza illuminata dal sole a Messina, che con gentilezza dissero “Abbiamo cattive notizie per voi. Non abbiamo trovato nessuna attività cerebrale.” Sedemmo lì, tenendoci per mano, senza parlare. Provai ad assorbire il pensiero che non lo avrei più sentito dire “Buonanotte papà”. Poi Maggie, premurosa come sempre, disse sommessamente, “Ora che se n’è andato, non dovremmo donare i suoi organi?”.
L’idea fu di ispirazione. Per la prima volta da quando era stato colpito da quel proiettile, c’era un barlume di speranza nell’oscurità. Dopo tutto, qualcosa di buono poteva venir fuori da quell’insensata violenza. Dissi di ‘Sì’; dicemmo ai dottori che quello era ciò che volevamo fare e tornammo in hotel a preparare i bagagli. Non avrebbe potuto essere più semplice.
Ovviamente, non ha portato via il dolore: dopo vent’anni penso ancora a mio figlio Nicholas molte volte al giorno e sempre con un senso di una perdita irreparabile. Ma ha messo qualcosa sull’altro piatto della bilancia. E di tutte le centinaia di famiglie donatrici che ho incontrato da allora, posso a malapena ricordarne una che se n’è rammaricata. Sebbene per queste famiglie fosse chiaro come lo era stato per noi che quella era la cosa giusta da fare, per molte persone è molto più duro e reso ancora più duro dal fatto che la morte cerebrale di solito è improvvisa. Non sono preparate ad essa, e arrivano all’ospedale trovando un membro della famiglia che poche ore prima era in perfetta salute e ora è morto o in fin di vita. Possono essere arrabbiate o troppo sconvolte per comprendere le opzioni. Magari c’è stato un divorzio pieno di rabbia e le due parti non si sono parlate per mesi, eppure in quel momento si trovano a discutere su una questione estremamente sensibile cui nessuno di loro ha mai seriamente pensato. Forse un figlio è affogato o è stato investito da un’auto mentre tornava da scuola, una situazione che un genitore considera una negligenza dell’altro. Forse un membro della famiglia si oppone e, in un momento come quello, gli altri non hanno la forza di dibattere. Non c’è tempo per meditare: la decisione di donare deve essere presa lì e in quel momento, o non data.
Così, tante persone dicono ‘No’ e poi se ne pentono per il resto della vita, rendendosi conto solamente dopo che hanno rinunciato alla possibilità di salvare parecchie famiglie dalla devastazione che loro stessi stanno vivendo. Solo allora si rendono realmente conto che in quel momento probabilmente avevano nelle loro mani la migliore opportunità che avranno mai di rendere il mondo un posto migliore per gli altri.
Normalmente in Italia le due parti non s’incontrano mai. Nel nostro caso, in ogni modo, dove la pubblicità fu totalmente avvolgente, si seppe in pochi giorni chi erano i riceventi e pochi mesi dopo li incontrammo tutti con, credo, la schiacciante approvazione degli italiani di ogni tipo. Avendo incontrato tutti i riceventi ed essendo venuti a conoscenza di quanto alcuni di loro fossero vicini alla morte e sapendo cosa gli sarebbe accaduto, so che se ci fossimo scrollati di dosso i loro problemi come se non ci riguardassero, Maggie ed io non ci saremmo mai potuti guardare indietro senza un profondo senso di vergogna per aver voltato loro le spalle.
E così, il cambiamento più indispensabile di tutti per aumentare i tassi della donazione, è che le persone pensino alla donazione degli organi quando sono sereni e possono discuterne coscienziosamente con le loro famiglie. Per produrre questo è necessario fare uno sforzo totale per rendere il pubblico a suo agio con l’idea della donazione degli organi perché cessi di essere qualcosa di distante o sconosciuto, o qualcosa a cui pensare in seguito, e possa invece diventare molto semplicemente la cosa normale da fare.
Ci sono molti modi per realizzarlo, ma per me quello più efficace è attraverso le storie personali. Chiunque abbia una qualche connessione con i trapianti ha una storia unica. Credo che tutti – e in modo particolare i medici e le famiglie dei donatori – dovremmo raccontare queste storie. Per coloro che volessero lavorare insieme a me, farò di tutto per aiutarli.
I risultati dei trapianti, sebbene possano differire a seconda dell’organo, sorprendono molti profani. Negli Stati Uniti, il 90% dei riceventi di un cuore è vivo un anno dopo la donazione, il 75% lo è dopo cinque anni e il 55% dopo dieci. Considerando che tutte queste persone erano malate terminali, alcune sulla soglia della morte, e che alcune muoiono di cause non correlate al trapianto, è un dato sorprendente.
Oh, a proposito, anche parlare nei ristoranti a delle bellissime persone che non si conosce può produrre dei risultati sorprendentemente buoni.

Reginald Green
The Nicholas Green Foundation
La Cañada Flintridge, California, USA
e-mail: rfdgreen@gmail.com

Reginald Green ha scritto due libri sulla donazione degli organi e prodotto un documentario di 12 minuti, tutti tradotti in italiano. Si offre di mandarli elettronicamente senza alcun costo a chiunque lo contatti (rfdgreen@gmail.com). Il sito web della Fondazione Nicholas Green è www.nicholasgreen.org.
Perché il trapianto ci riguarda
Ogni notte, da qualche parte in Italia (e dappertutto nel mondo), un cardiologo interventista si sveglia e va al laboratorio di emodinamica per aprire le coronarie di un paziente con un infarto acuto. Questo cardiologo è orgoglioso di poter fornire un trattamento altamente efficace, e ha ragione. Lo stesso cardiologo è molto meno entusiasta quando deve andare in ospedale nel mezzo della notte per fare una coronarografia a un uomo di 55 anni in condizione di morte cerebrale – e in questo caso si sbaglia, perché escludere la presenza di coronaropatia in un potenziale donatore di cuore è almeno altrettanto salvavita che riaprire una coronaria occlusa... La sola differenza è che nel caso del potenziale donatore l’emodinamista non conosce il beneficiario del suo lavoro. Analogamente, un cardiologo esperto nella diagnostica non invasiva è pronto a studiare in modo completo e sofisticato con l’ecocardiogramma un paziente con sospetta endocardite, oppure un paziente con insufficienza cardiaca e un QRS di 125 ms, in valutazione per l’impianto di un pacemaker biventricolare. Ma può capitare di leggere referti approssimativi e di scarsa qualità a firma dello stesso cardiologo se l’ecocardiogramma è eseguito in un potenziale donatore di cuore, benché vi sia generale accordo sull’importanza di un ecocardiogramma ben fatto lungo il percorso di “procurement” del cuore. Questo per dire che, affinché un programma di trapianto sia efficace, l’impegno dei medici nella identificazione, valutazione e gestione del potenziale donatore è altrettanto importante quanto la promozione dell’attitudine sociale a favore della donazione.
Dal 1990 lavoro nel programma Insufficienza Cardiaca e Trapianto del Dipartimento Cardiotoracovascolare “A. De Gasperis” dell’Ospedale Niguarda Ca’ Granda di Milano, che attualmente ho l’onore di dirigere, e proprio pochi mesi fa abbiamo festeggiato la dimissione della ricevente del millesimo trapianto di cuore eseguito nel nostro ospedale. Inoltre, all’età di 41 anni il mio fratello maggiore, un brillante professore di fisica e teoria della probabilità all’università di Milano, morì per un accidente cerebrovascolare e, grazie all’assenso di sua moglie, diventò un donatore multiorgano; io stessa mi sono presa cura del ricevente del suo cuore per quasi 20 anni.
Perciò è stata per me una bella sorpresa ricevere questa lettera da parte di Mr. Reginald Green, lettera che volentieri offro ai lettori del Giornale Italiano di Cardiologia. L’approccio di Mr. Green alla donazione e al trapianto è molto personale. Non apprezzeremo e non ringrazieremo mai abbastanza lui e sua moglie per essere stati capaci di trasformare una tragedia personale e familiare in una opportunità straordinaria per riflettere sul valore e sul significato di altre vite, di altre storie. Essendo medici, non dovremmo aver bisogno di conoscerle tutte una per una per essere favorevoli alla donazione degli organi, e soprattutto dovremmo evitare il rischio di giudicare i protagonisti di queste storie in base alla nostra scala di valori personale o sociale. Ma conoscere qualcuna di queste storie individuali può essere estremamente utile a ricordarci che loro (individui, storie personali di vita e di morte, di sofferenza e di speranza) sono lì, dietro sia i donatori sia i riceventi. Anche se sono anonimizzati, la donazione e il trapianto non sono mai anonimi.
Dal punto di vista del paziente, la medicina è (dovrebbe essere) precisamente e solo orientata agli individui – a me, a mia mamma, a mio marito... In teoria, quando un medico vede un paziente dovrebbe essere focalizzato precisamente e solo a fare il meglio possibile per quel paziente – ma sappiamo che questa teoria non funziona più senza prendere in considerazione i costi, le risorse umane, la sostenibilità, la costo-efficacia, eccetera. Spostarsi da una prospettiva puramente individualistica (quel singolo paziente e il suo medico) a una più ampia prospettiva sociale non è di per sé un male, ma obbliga tutti noi (noi come cittadini, non solo noi medici) a scegliere le priorità e a dichiarare quali opzioni riteniamo migliori e quindi meritevoli dell’investimento di risorse.
Mentre il trapianto di rene non è in discussione (perché nell’insieme il trapianto ha anche un profilo di costo-efficacia favorevole nei confronti della dialisi), e si potrebbe dire che il fegato è simpaticamente “risparmioso”, dal momento che con uno solo si possono trapiantare due pazienti, il cuore è l’organo più snob, più esigente ed elusivo... Parlando sul serio: il concetto che il trapianto di cuore sia costoso ed epidemiologicamente irrilevante emerge qua e là nella comunità cardiologica, e non porta a niente di buono se non è bilanciato da altre considerazioni.
Quando trattiamo tutti i nostri pazienti nel post-infarto con lo stesso pacchetto raccomandato di farmaci, dal momento che il beneficio è stato dimostrato statisticamente in coorti numerose di pazienti, siamo portati a credere che stiamo facendo qualcosa di buono per tutti, mentre in realtà stiamo trattando un discreto numero di persone per salvare (da un altro attacco di cuore, non necessariamente dalla morte) solo uno tra loro. Presi insieme, loro (quelli che avranno in ogni caso un attacco di cuore, e quelli che non l’avranno indipendentemente dal trattamento) più quel paziente che non avrà l’attacco grazie al farmaco, formano il NNT, ovvero il Numero che Necessita il Trattamento per un certo periodo di tempo, per evitare un evento. Quindi alla fine la medicina torna ad essere una questione di individui – solo che non siamo capaci di identificare a priori il beneficiario.
Accade l’opposto con il trapianto di cuore che, se guidato da principi di appropriatezza ed equità e da politiche di allocazione condivise, è una terapia estremamente ben mirata. Sia i pazienti sia i medici sanno esattamente quanto sia grande la differenza tra ricevere o non ricevere il trapianto.
È possibile che con l’aiuto delle parole di Mr. Green noi possiamo correggere questa sorta di presbiopia che ci rende difficile vedere ciò che abbiamo più vicino: l’individuo, il paziente. Mantenendo tutto il buono che la cosiddetta medicina basata sulle evidenze ha fatto per la nostra metodologia, la nostra pratica, e alla fine, per gli esiti dei pazienti, dovremmo allo stesso tempo essere capaci di recuperare l’antica arte di prendersi cura dei singoli, se vogliamo comprendere i valori del trapianto. Dall’altro lato, pochi temi mettono alla prova i valori della società e necessitano di un accordo tra l’organizzazione del servizio sanitario, i professionisti, i pazienti e la comunità dei cittadini, più di quanto faccia il trapianto. I principi condivisi, basati sia sull’etica sia sulla conoscenza, devono essere tradotti in regole e protocolli riguardo alla donazione degli organi e alle priorità per l’allocazione, che devono essere abbastanza stringenti da risultare chiari per coloro che li devono seguire, e abbastanza flessibili da adattarsi per poter incorporare nuove scoperte e opportunità.
Così la medicina del trapianto è una straordinaria scuola sia della medicina mirata al singolo individuo sia della medicina a orientamento sociale, i cui insegnamenti sono utili in altri contesti complessi e potremmo dire di confine, che affrontiamo nella nostra vita professionale: ad esempio, il prendere decisioni in condizioni di emergenza, nell’ambito della terapia intensiva, riguardo ai problemi del fine vita, ed i criteri di allocazione di risorse limitate.
Come medici, io penso che abbiamo la responsabilità di lavorare per rifinire tutte le facce di questa pietra preziosa rappresentata dal trapianto, inclusi l’attitudine dei cittadini, l’organizzazione del servizio sanitario, i progressi della scienza e l’impegno personale, quale che sia il nostro ruolo. Perché il trapianto può riguardare – e in effetti riguarda – ciascuno di noi. 

Maria Frigerio
Dipartimento Cardiotoracovascolare “A. De Gasperis”
A.O. Ospedale Niguarda Ca’ Granda, Milano
e-mail: maria.frigerio@ospedaleniguarda.it