Diabete di tipo II e ipertensione sono due condizioni frequentemente associate negli adulti, soprattutto nei paesi sviluppati. Tanto più quando ad essi si associa l’obesità che rappresenta oggi e per il prossimo futuro una vera e propria condizione epidemica. Questo complesso di patologie implica un rischio per malattie cardiovascolari molto più elevato di quello insito nell’ipertensione arteriosa isolata. Probabilmente questo maggior rischio è dovuto ad un insieme di fattori: l’iperglicemia e la glicazione proteica, la coesistenza di una sindrome dismetabolica comprendente iperdislipidemia, iperuricemia, trombofilia, alterazione degli equilibri ionici di membrana (sindrome X) e la compresenza di un’iperresistenza insulinica con iperinsulinemia che contribuisce a provocare quelle alterazioni fisiopatologiche che favoriscono lo sviluppo della placca aterosclerotica e il verificarsi degli eventi clinici. Ne consegue la necessità di una terapia, non farmacologica e farmacologica, particolarmente aggressiva. Anche se i trial fino ad oggi condotti su gruppi di ipertesi diabetici hanno dato risultati discutibili e poco convincenti, è opinione generale che un abbassamento deciso della pressione arteriosa sia la conditio sine qua non per una riduzione degli eventi: ciò si ottiene per lo più con una terapia antipertensiva comprendente più farmaci. Tra questi, gli ACE-inibitori (e forse i bloccanti i recettori AT1 dell’angiotensina II) sono oggi considerati indispensabili, specie in quei pazienti ipertesi diabetici che abbiano anche una microalbuminuria o addirittura una nefropatia diabetica con proteinuria conclamata.