Tromboembolismo venoso e fibrillazione atriale
nel paziente oncologico

Nicola Maurea1, Letizia Riva2

1S.C. Cardiologia, Istituto Nazionale Tumori, IRCCS Fondazione G. Pascale, Napoli

2U.O.C. Cardiologia, Ospedale Maggiore, Bologna

CANCRO E TROMBOEMBOLISMO VENOSO

Il tromboembolismo venoso (TEV) è una comorbilità particolarmente frequente e ricorrente nel paziente con cancro e ne costituisce la seconda causa di morte dopo il cancro stesso. Di tutti i casi di TEV il 20% si verifica nel paziente oncologico. Di tutti i pazienti oncologici il 10% sviluppa un TEV nei 2 anni successivi all’evento1,2. Nei pazienti oncologici ospedalizzati, l’incidenza cumulativa di trombosi venosa profonda (TVP) riportata in letteratura è del 4.6%, ma in casistiche autoptiche il 50% dei soggetti affetti da cancro ha segni di TVP3,4. Le discrepanze nel tasso di incidenza del TEV associato a cancro sono riconducibili all’eterogeneità degli studi per selezione dei pazienti, caratteristiche cliniche dei pazienti e durata del follow-up. È inoltre noto che nel paziente oncologico il rischio di sviluppare un evento tromboembolico venoso dipende da vari fattori quali il tipo di tumore, lo stadio e l’estensione del cancro, l’età, l’immobilizzazione, la chirurgia e alcuni trattamenti chemioterapici.

La fisiopatologia dello stato protrombotico del paziente con cancro è infatti complessa e multifattoriale: alla base vi è un’ipercoagulabilità innescata da fattori tissutali e procoagulanti legati al processo neoplastico, rilasciati dalle cellule tumorali, e da mucine e citochine infiammatorie, associata a stasi venosa e disfunzione endoteliale, causata dalla tossicità dei chemioterapici, degli agenti ormonali e delle radiazioni ionizzanti5,6. Infine un fattore particolarmente predisponente al TEV è il posizionamento di cateteri venosi centrali (Figura 1).

L’aumentata trombogenicità consegue in particolare all’attivazione locale e sistemica della cascata della coagulazione, alla trombocitosi, alla deplezione dei fattori C e S, all’aumento dei livelli di fibrinogeno e all’inibizione della fibrinolisi7.

Nei pazienti con neoplasie ematologiche vi è, in aggiunta, un rischio aumentato di trombosi in situ, correlato alla trombofilia intrinseca alla specifica neoplasia.

È stato dimostrato che la chemioterapia è un fattore di rischio indipendente per il TEV, in quanto comporta un aumento dei livelli di fattore tissutale dei macrofagi e dei monociti, un “mismatch” tra l’attività endogena procoagulante ed anticoagulante, un incremento della necrosi delle cellule endoteliali e della reattività delle stesse alle piastrine8,9. Il rischio di tossicità e di TEV è imprevedibile e differente per ogni farmaco antitumorale, ma comunque maggiore nei primi 30 giorni di trattamento10-12. Nella Tabella 1 sono riportati i farmaci antitumorali, il cui utilizzo è più frequentemente associato a TEV; tra questi spiccano gli inibitori dell’angiogenesi13,14.

Il TEV associato a cancro comporta un aumento significativo di morbilità e mortalità e anche il trattamento anticoagulante a lungo termine, che si rende necessario per questi pazienti, contribuisce ad aggravarne la prognosi con un aumento dei sanguinamenti. Il TEV rappresenta, infatti, una delle principali cause di morte nel paziente con cancro attivo in trattamento con chemioterapici15. Inoltre la sopravvivenza è particolarmente ridotta quando la diagnosi di cancro è concomitante all’evento tromboembolico venoso16.

CANCRO E FIBRILLAZIONE ATRIALE

Il cancro viene oggi considerato un fattore di rischio cardiovascolare, perché si associa ad un’aumentata incidenza di eventi tromboembolici, sia venosi che arteriosi, e di scompenso cardiaco5,17. Studi su pazienti sopravvissuti al cancro hanno dimostrato che circa un terzo dei casi muore per malattia cardiovascolare18,19.

Dati recenti hanno evidenziato anche un aumento dell’incidenza di fibrillazione atriale (FA) tra i pazienti oncologici20. I primi studi di ricerca su questo argomento, risalenti alla metà degli anni ’70, riportano un aumento del rischio di FA dopo chirurgia toracica oncologica, e successivamente anche dopo chirurgia per il cancro del colon-retto e dell’esofago, con una prevalenza compresa tra il 4% e il 12%21-24. Attualmente è noto che l’incidenza di FA nella fase perioperatoria varia tra il 4.4% e il 28% a seconda del tipo di intervento chirurgico e della presenza di fattori di rischio aggiuntivi, quali età avanzata, sesso maschile, storia di ipertensione arteriosa sistemica, stadio avanzato della neoplasia25. La maggioranza degli episodi di FA sembra verificarsi durante i primi 3 giorni dopo l’intervento chirurgico, con una significativa riduzione del tasso di incidenza dopo il terzo giorno26,27. In seguito è stato dimostrato uno stretto legame tra cancro e FA anche al di fuori del contesto chirurgico postoperatorio, in quanto la FA è una comorbilità insita nella patologia neoplastica28. Uno studio condotto su 833 500 cartelle cliniche di 26 principali sistemi sanitari degli Stati Uniti ha mostrato che il rischio di FA, aggiustato per età, nei casi di tumore di nuova diagnosi è 4.4 volte più alto nel primo anno dalla diagnosi del cancro e maggiore del 22-30% dopo il primo anno29.

Ad oggi si ritiene che l’infiammazione, componente critica del processo neoplastico, unitamente ad alterazioni del sistema nervoso autonomo, possa promuovere l’insorgenza di FA nei pazienti con cancro30. Lo stress ossidativo correlato all’infiammazione determina cambiamenti elettrici e anatomici, che predispongono e mantengono, anche mediante la fibrosi, la FA. In merito sono stati documentati elevati livelli di proteina C-reattiva e di neutrofili nei soggetti con cancro del colon o mammario e FA rispetto ai soggetti in ritmo sinusale31. La FA può conseguire a squilibri del sistema nervoso autonomo, sia per influenze del tono vagale sia per influenze del tono simpatico32, e del sistema immunitario, attivato non solo contro gli antigeni tumorali, ma anche contro se stesso, a livello delle strutture atriali33. Infine varie comorbilità come il fumo, l’alcolismo, l’obesità e l’invecchiamento predispongono sia alla FA che al cancro.

Per quanto riguarda i trattamenti contro il cancro, sia la chemioterapia sia la radioterapia possono dare luogo ad insorgenza di FA. Una buona parte dei farmaci oncologici, alchilanti (cisplatino, ciclofosfamide), antracicline, antimetaboliti (5-fluorouracile, gemcitabina), taxani, inibitori della topoisomerasi II e delle tirosinchinasi sono cardiotossici, possono provocare la FA anche a causa dell’insufficienza cardiaca da disfunzione ventricolare sinistra, che comportano34 (Tabella 2).

Un farmaco associato ad una notevole incidenza di FA è l’ibrutinib, usato nella leucemia linfatica cronica, la cui gestione è particolarmente difficile perché, oltre all’aumentato rischio di FA, comporta anche un aumento del rischio di sanguinamento35,36. Il danno miocardico secondario alla radioterapia è invece legato alla fibrosi, che si può sviluppare a livello degli atri, prevalentemente nei casi di tumore localizzato al torace, e che è substrato per la perpetuazione dell’aritmia30 (Figura 2).

L’impatto prognostico della FA nei pazienti con cancro è simile a quello della popolazione generale, con un aumento di 2 volte del rischio di morte, di 3 volte del rischio di insufficienza cardiaca e di 5 volte del rischio di ictus cerebrale37. Anche la FA perioperatoria, nei pazienti affetti da neoplasia, è risultata predittore indipendente di mortalità, a lungo termine maggiore del 50%38,39.

In conclusione, l’incidenza e le ripercussioni prognostiche di TEV e FA nei pazienti con cancro, nonché le implicazioni gestionali che ne conseguono, rendono necessaria la definizione di strategie terapeutiche ottimali per tali pazienti.













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