Terapia antitrombotica nei pazienti sottoposti
a impianto transcatetere di valvola aortica:
alla ricerca del Santo Graal

Piera Capranzano, Davide Capodanno

Dipartimento Cardio-Toraco-Vascolare, Ospedale Ferrarotto, Università degli Studi, Catania

L’impianto transcatetere di valvola aortica (transcatheter aortic valve implantation, TAVI) ha guadagnato negli ultimi anni crescente consenso e popolarità come trattamento alternativo alla chirurgia nei pazienti con stenosi aortica severa a elevato rischio di morte periprocedurale, e come intervento di scelta nei pazienti a rischio chirurgico proibitivo. In questo scenario, lo studio PARTNER 2A ha recentemente dimostrato che la TAVI con protesi pallone-espandibile è non inferiore alla sostituzione valvolare chirurgica nei pazienti a rischio chirurgico intermedio, aprendo così la stagione dell’ennesimo dibattito tra cardiologi interventisti e cardiochirurghi sul tema delle indicazioni e del rischio/beneficio delle rispettive procedure1. Mentre l’evidenza a supporto della TAVI si consolida in una proporzione sempre più ampia di pazienti, diverse aree d’incertezza (es. durabilità delle protesi valvolari, impatto clinico dei leak paraprotesici residui) ne minano un percorso altrimenti apparentemente inarrestabile.

In questo Supplemento del Giornale Italiano di Cardiologia, Gargiulo e Valgimigli2 affrontano un’altra questione sulla quale pesa l’assenza di solide evidenze scientifiche, cioè la gestione della terapia antitrombotica durante e dopo la TAVI. In una procedura compiuta in una proporzione rilevante di pazienti con fibrillazione atriale – ed essa stessa potenziale causa di fibrillazione atriale di nuova insorgenza – che tipicamente prevede l’introduzione e manipolazione di dispositivi di grandi dimensioni in aorta, e l’impianto di una protesi che schiaccia la valvola nativa determinando un importante insulto tissutale, la terapia antitrombotica ottimale si pone l’obiettivo di minimizzare il rischio di ictus ischemico senza aumentare il rischio di sanguinamento. Queste esigenze si confrontano in una popolazione per lo più anziana in cui il rischio emorragico non si limita alla procedura e in cui anche i sanguinamenti tardivi si ripercuotono sfavorevolmente sulla sopravvivenza3,4. La definizione di una prassi antitrombotica standardizzata durante e dopo TAVI è dunque un tema oggettivamente difficile, reso ancor più controverso dall’esigua mole di dati disponibili in letteratura.

Mentre l’anticoagulazione periprocedurale sembra avere trovato nell’eparina non frazionata il farmaco di scelta dopo i risultati neutrali di uno studio randomizzato di confronto con la bivalirudina5, la questione del trattamento antitrombotico dopo TAVI rimane controversa. Quattro piccoli studi hanno testato la monoterapia con aspirina contro la doppia terapia antipiastrinica dopo TAVI, concludendo che la monoterapia riduce i sanguinamenti maggiori senza aumentare il rischio di ictus ischemico. I rilevanti limiti di questi studi, ben delineati da Gargiulo e Valgimigli nella loro rassegna, non permettono di concludere con certezza che la sola aspirina possa essere sufficiente a prevenire il rischio di ictus. Tuttavia, la consistenza dei risultati di sicurezza e la loro plausibilità biologica suggeriscono che la monoterapia antipiastrinica potrebbe rappresentare un’opzione percorribile nei pazienti ad elevato rischio emorragico. Poiché la maggior parte dei casi di ictus si verifica entro i primi 30 giorni dalla TAVI, una strategia antitrombotica ragionevole potrebbe prevedere la doppia terapia antiaggregante per almeno 1 mese e il successivo depotenziamento a monoterapia con aspirina. Questa strategia è stata adottata nello studio PARTNER 2A1, in cui il rischio assoluto di ictus ischemico è aumentato del 2.5% nell’intervallo di tempo tra 30 giorni ed 1 anno, e del 4% tra 30 giorni e 2 anni, mentre i sanguinamenti minacciosi per la vita o disabilitanti sono aumentati del 4.8% da 30 giorni fino ad 1 anno e del 6.9% da 30 giorni fino a 2 anni. Questi dati sembrano suggerire che l’aspirina, anche da sola, è associata ad un maggiore aumento assoluto del rischio di sanguinamento rispetto all’aumento del rischio di ictus dopo 30 giorni, argomento pertanto a sfavore del ricorso a regimi prolungati di doppia antiaggregazione. Gli studi ARTE e POPular-TAVI contribuiranno a definire il ruolo della doppia antiaggregazione piastrinica rispetto alla monoterapia con aspirina dopo TAVI.

Il possibile ruolo patogenetico della trombina nello sviluppo di eventi trombotici cerebrali dopo TAVI, la non infrequente insorgenza post-procedurale di fibrillazione atriale e i casi di trombosi valvolare riportati in letteratura suggeriscono dall’altro lato la potenziale utilità della terapia cronica anticoagulante anche nei pazienti senza una indicazione di base al loro utilizzo, ipotesi avanzata nella loro rassegna anche da Gargiulo e Valgimigli. Tuttavia, bisogna osservare che il rischio di sanguinamento legato all’utilizzo dei farmaci anticoagulanti orali potrebbe non controbilanciare il pericolo di ictus e l’incidenza di trombosi valvolare clinicamente manifesta, quest’ultima al momento da considerarsi evenienza infrequente, anche se possibilmente sottostimata. Inoltre va ricordato che studi clinici randomizzati condotti nei pazienti con fibrillazione atriale hanno dimostrato un’incidenza di sanguinamenti maggiori tendenzialmente più bassa o simile con l’anticoagulante orale rispetto alla bassa dose di aspirina, indipendentemente dall’età6,7. Rimane da determinare se questi dati siano traslabili anche ai pazienti ai quali al momento è offerta la TAVI. Studi in corso stanno confrontando la terapia anticoagulante orale con antagonisti della vitamina K (AUREA, ATLANTIS), rivaroxaban (GALILEO) o apixaban (ATLANTIS) con quella antipiastrinica in pazienti senza un’indicazione di base all’anticoagulazione. In attesa dei risultati di questi studi, al momento sembra ragionevole riservare l’opzione anticoagulante ai pazienti fibrillanti e ai pazienti non fibrillanti solo in casi selezionati e a basso rischio di sanguinamento. Utili appaiono in generale l’attento monitoraggio ecocardiografico ai fini della diagnosi precoce di trombosi della valvola e le strategie di screening mirate alla rilevazione degli episodi di fibrillazione atriale di nuova insorgenza. In pazienti con sospetta disfunzione della valvola e aumento tardivo del gradiente valvolare, un ciclo di terapia anticoagulante potrebbe inoltre rappresentare un utile criterio ex adiuvantibus.

In conclusione, la maggior parte degli operatori contemporanei somministra eparina non frazionata durante la TAVI, e prescrive – in pazienti che non necessitano di anticoagulanti orali per altre ragioni – un regime di doppia antiaggregazione con aspirina e clopidogrel per i successivi 3-6 mesi, seguiti da monoterapia cronica con aspirina. Sulla base dei dati attualmente disponibili appare ragionevole limitare ad 1 mese il periodo di doppia antiaggregazione. È possibile considerare il ricorso alternativo a farmaci anticoagulanti orali in una ristretta proporzione di pazienti a basso rischio emorragico, così come avviene nei pazienti fibrillanti (con o senza l’aggiunta di un antipiastrinico)? Difficile a dirsi. In questa situazione d’incertezza, in cui lo stesso meccanismo patogenetico di formazione del trombo è messo in discussione (es. prevalentemente mediato dalle piastrine o dalla trombina?), il confronto di farmaci e strategie mediante rigorosi studi clinici randomizzati diventa essenziale. La buona notizia è che tanti di questi studi sono in corso, anche se i loro risultati non saranno disponibili per un certo numero di anni. Nel frattempo, concordiamo con la conclusione generale di Gargiulo e Valgimigli che nella scelta della migliore terapia antitrombotica dopo TAVI è fondamentale tenere conto delle caratteristiche cliniche individuali e degli aspetti tecnici della procedura.

BIBLIOGRAFIA

1. Leon MB, Smith CR, Mack MJ, et al., PARTNER 2 Investigators. Transcatheter or surgical aortic-valve replacement in intermediate-risk patients. N Engl J Med 2016;374:1609-20

2. Gargiulo G, Valgimigli M. Terapia antitrombotica nei pazienti sottoposti a impianto transcatetere di valvola aortica. G Ital Cardiol 2016;17(6 Suppl 2):4S-10S.

3. Rodés-Cabau J, Dauerman HL, Cohen MG, et al. Antithrombotic treatment in transcatheter aortic valve implantation: insights for cerebrovascular and bleeding events. J Am Coll Cardiol 2013;62:2349-59.

4. Gènéreux P, Cohen DJ, Mack M, et al. Incidence, predictors, and prognostic impact of late bleeding complications after transcatheter aortic valve replacement. J Am Coll Cardiol 2014;64:2605-15.

5. Dangas GD, Lefèvre T, Kupatt C, et al.; BRAVO-3 Investigators. Bivalirudin versus heparin anticoagulation in transcatheter aortic valve replacement: the randomized BRAVO-3 Trial. J Am Coll Cardiol 2015;66:2860-8.

6. Connolly SJ, Eikelboom J, Joyner C, et al.: AVERROES Steering Committee and Investigators. Apixaban in patients with atrial fibrillation. N Engl J Med 2011;364:806-17.

7. Mant J, Hobbs FD, Fletcher K, et al.; BAFTA Investigators. Warfarin versus aspirin for stroke prevention in an elderly community population with atrial fibrillation (the Birmingham Atrial Fibrillation Treatment of the Aged Study, BAFTA): a randomised controlled trial. Lancet 2007;370:493-503.