In questo numero

processo ai grandi trial




Relaxina: dalla gravidanza allo scompenso cardiaco acuto

Andrea Mortara commenta il trial RELAX-AHF, primo studio a mostrare dopo molti fallimenti un effetto farmacologico positivo nello scompenso acuto. La serelaxina, forma ricombinante della relaxina-2 umana prodotta in gravidanza per mediare gli adattamenti emodinamici, somministrata per 48 ore dopo l’esordio dei sintomi ha migliorato significativamente i sintomi e ridotto la mortalità a medio termine. Gli effetti positivi osservati in fase acuta, in associazione alla terapia con diuretici e vasodilatatori, includono riduzione della congestione e della durata della degenza totale e in terapia intensiva e sembrano mediati da una vasodilatazione multidistrettuale legata ad attivazione dell’ossido nitrico-sintetasi. Benché non siano emersi benefici a breve termine su decessi e riospedalizzazioni, a 6 mesi nei pazienti trattati con serelaxina si è osservata un’importante riduzione della mortalità ­(-37%), che viene ascritta alle proprietà antinfiammatorie, antifibrotiche e antipertrofiche, nefro- ed epatoprotettive e all’effetto pro-angiogenetico del farmaco. La serelaxina ha ottenuto gli stessi benefici nei pazienti con funzione sistolica ridotta e nel più esiguo sottogruppo con frazione di eiezione conservata, un risultato importante per una popolazione nella quale mancano ampiamente prove di efficacia per qualunque trattamento farmacologico. La serelaxina ha dimostrato un buon profilo di sicurezza, anche se si sono rese necessarie variazioni posologiche per ipotensione in misura quasi doppia rispetto al placebo. Sebbene la trasferibilità dei risultati del RELAX-AHF nella pratica clinica sembri limitata per i criteri di inclusione a circa un quinto della popolazione con scompenso acuto, un chiaro elemento di novità nel contesto dei trial nello scompenso acuto è la precoce randomizzazione durante le prime ore dal ricovero, importante chiave interpretativa per valutare criticamente i benefici osservati. •




Un nuovo trial clinico sul trattamento dell’insufficienza mitralica ischemica: un ulteriore passo in avanti?
L’insufficienza mitralica (IM) conseguente ad un infarto del miocardio si accompagna ad una ridotta sopravvivenza e ad un’aumentata incidenza di scompenso cardiaco congestizio. Purtroppo la risposta dell’IM ischemica alla rivascolarizzazione miocardica è del tutto imprevedibile e d’altro canto non vi è alcuna dimostrazione che il trattamento chirurgico concomitante del vizio valvolare possa in qualche modo migliorare la sopravvivenza di questi pazienti. In questo contesto è stato di recente pubblicato il follow-up ad un anno di uno studio prospettico randomizzato che coinvolge 26 Centri nordamericani, in cui 301 pazienti con IM ischemica moderata sono stati suddivisi in due gruppi, trattati ambedue con rivascolarizzazione miocardica, in un caso isolata e nell’altro associata ad anuloplastica mitralica riduttiva. I risultati dello studio non mostrano differenze significative fra i due gruppi nell’endpoint primario (rimodellamento ventricolare sinistro) ma una maggiore incidenza di complicanze neurologiche nel gruppo con concomitante trattamento dell’IM. Ottavio Alfieri et al. ci fanno capire però che i limiti dello studio, dalle modalità di inclusione dei pazienti, alla definizione di IM ischemica, alle modalità di analisi ecocardiografica del rimodellamento e di valutazione delle complicanze, sono tali per cui alla fine abbiamo forse più dubbi che certezze. Il trattamento dell’IM ischemica moderata è ancora una scelta da fare paziente per paziente, in funzione dell’esperienza dei singoli chirurghi. •

editoriali
Articolo del mese




Il trattamento dell’embolia polmonare acuta: novità dalle linee guida europee
L’embolia polmonare (EP) è un killer silenzioso: ben il 59% delle morti attribuite a malattia tromboembolica venosa risultano da EP non diagnosticate in vita. L’EP rimane ancor oggi una diagnosi insidiosa e solo nel 10-35% dei pazienti sottoposti all’iter diagnostico inclusivo di angio-tomografia polmonare il sospetto clinico viene confermato. Matteo Rugolotto e Giuseppe Favretto analizzano le nuove linee guida europee sottolineandone i messaggi chiave e le zone d’ombra. Punto cruciale è, anche nella nuova versione 2014, l’approccio centrato non sul carico trombotico, ma sul contesto clinico complessivo e sul rischio espresso in relazione all’instabilità emodinamica e alle caratteristiche individuali. Gli autori analizzano l’applicazione di nuovi punteggi (PESI) che integrano variabili direttamente correlate alla patologia embolica con le caratteristiche cliniche del paziente per stratificare gruppi a rischio basso o intermedio, con l’indicazione a raffinare l’inquadramento dei pazienti a rischio intermedio mediante indagini strumentali e di laboratorio. Le linee guida europee 2014 confermano l’indicazione a limitare la rivascolarizzazione farmacologica con trombolisi, per l’elevata incidenza di emorragie intracraniche maggiori, solo ai casi di EP ad alto rischio perché emodinamicamente instabili e pongono i nuovi anticoagulanti orali come farmaci di prima scelta nella fase acuta dell’EP (rivaroxaban, apixaban) oppure dopo la prima fase di trattamento eparinico (dabigatran, edoxaban), sottolineando peraltro la necessità di un prudente percorso di validazione nel mondo reale prima di una piena applicazione nella pratica clinica. Gli autori analizzano poi lo spazio dedicato all’ipertensione polmonare tromboembolica, al ruolo diagnostico ivi riconosciuto della scintigrafia polmonare, ai nuovi farmaci orali come riociguat, e al trattamento d’elezione, l’intervento chirurgico di trombo-endoarterectomia polmonare. L’editoriale è offerto alla discussione attraverso la piccola posta ( piccolaposta@giornaledicardiologia.it) fino alla fine del mese di maggio. •




Un team aortico negli ospedali per la gestione delle sindromi aortiche acute
Le linee guida ESC/EACTS 2014 sulla diagnosi e il trattamento delle malattie aortiche, redatte dalla Società Europea di Cardiologia in collaborazione con l’Associazione Europea di Chirurgia Cardiotoracica, rappresentano le prime linee guida in tal senso e fanno seguito alle raccomandazioni pubblicate nel 2001, che in realtà si limitavano alla diagnosi e al trattamento della disseziona aortica. L’originalità di questo lavoro è data dal fatto che sono trattati tutti gli argomenti inerenti alla chirurgia aortica, dalla diagnosi, alla clinica, al trattamento chirurgico ed endovascolare, e questo per tutta la patologia aortica, dagli aneurismi, alle dissezioni, alle aortiti, ai tumori e ai disordini genetici. Vengono inoltre trattate, per ognuna di queste patologie, le modalità di follow-up sia clinico che strumentale, sia pre- che postoperatorio. Queste linee guida sono il risultato di una stretta collaborazione tra medici provenienti da diverse aree di “expertise”: cardiologi, radiologi, genetisti, cardiochirurghi e chirurghi vascolari, e il messaggio principale che viene sottoposto alla nostra riflessione, come specificano Davide Pacini et al., è proprio quello di creare negli ospedali dei team multidisciplinari per la gestione delle sindromi aortiche acute (dei “team aortici”, che assomigliano agli “heart team”, ma che includono un maggior numero di figure mediche, necessarie per poter stabilire il miglior percorso per ogni singolo paziente). •




Oltre la statina: l’Odissea degli inibitori monoclonali di PCSK9
Le statine hanno rappresentato un fondamentale progresso nella terapia dell’ipercolesterolemia nell’ultimo ventennio, ottenendo importanti riduzioni del rischio cardiovascolare in prevenzione primaria e secondaria. Il tempo ha messo in evidenza le aree dove questi farmaci rivoluzionari non raggiungono risultati pienamente convincenti: le ipercolesterolemie familiari, relativamente comuni fra la popolazione caucasica nella forma eterozigote, e l’intolleranza alle statine, sindrome tuttora mal codificata che rappresenta una causa frequente di scarsa adesione al trattamento. Maddalena Lettino riassume con efficace precisione gli snodi fondamentali di ODYSSEY, il programma di sviluppo clinico di alirocumab, inibitore monoclonale di PCSK9. Partendo dalla fisiopatologia del metabolismo lipidico e del ruolo di questa proteina che lega il recettore per le LDL favorendone l’internalizzazione nel citoplasma e la degradazione lisosomiale, l’autrice illustra il razionale dell’inibizione di PCSK9. Viene quindi descritto l’ampio programma ODYSSEY condotto in oltre 2 0000 pazienti ipercolesterolemici, in particolare con forma familiare eterozigote o ad alto rischio cardiovascolare, che non raggiungono il target di colesterolo LDL per intolleranza o inefficacia della terapia convenzionale ottimizzata. Vengono descritti i risultati dei trial presentati nel corso del 2014, ODYSSEY FH I e II, FH HIGH, COMBO I e II e OPTIONS I e II, che hanno testato l’endpoint surrogato della riduzione del colesterolo LDL, documentando che a 24 settimane alirocumab ottiene una più efficace e dose-dipendente regolazione della colesterolemia LDL, anche se associato alla statina o ad altra terapia ipolipemizzante e consente di raggiungere i target lipidici anche in presenza di valori di LDL particolarmente elevati. La modalità di somministrazione, quindicinale sottocute, e la ridotta incidenza e modestia di effetti collaterali, prevalentemente reazioni nel sito di inoculazione del farmaco, naso-faringiti o sindrome influenzale, favoriscono l’aderenza al trattamento. Dopo i documentati benefici su endpoint surrogati, si attendono i risultati dello studio ODYSSEY OUTCOMES tuttora in corso, che si propone di dimostrare l’efficacia di alirocumab nel ridurre mortalità e morbilità in 5 anni di trattamento che contribuiranno anche alla definizione conclusiva della sicurezza del farmaco. •

point break




Uno sguardo sul ponte: coronarie nel tunnel
Cosa succede ad una coronaria che decorre intramurale nel tessuto miocardico? In questa estensiva rassegna Gregoriana Zanini et al. approfondiscono caratteristiche, meccanismi e trattamento di questa anomalia, relativamente comune da studi autoptici (fino all’80%) e tradizionalmente considerata benigna. Questa variante anatomica, che interessa prevalentemente il ramo discendente anteriore (40-70%), rende particolarmente suscettibile a processi ateromasici la regione coronarica più prossimale e subito precedente il ponte, verosimilmente per effetto dello “shear stress”, mentre la zona sita al di sotto del ponte intramiocardico sembra essere protetta dall’aterosclerosi. La sintomaticità è legata a variazioni della frequenza cardiaca, potendo una tachicardia smascherare l’effetto ischemico di un ponte intramiocardico attraverso la riduzione del tempo di flusso diastolico e il traumatismo intimale, con danno dell’endotelio che può portare ad aggregazione piastrinica e vasospasmo. Gli autori discutono la diversa prevalenza rilevata all’angiografia, metodica di prima scelta per la definizione funzionale dell’impatto ischemizzante del ponte, rispetto alla tomografia computerizzata coronarica che consente di meglio valutare la localizzazione, la lunghezza e la profondità di questa variante anatomica. Il significato clinico dei ponti miocardici è controverso: seppur in generale non determinino eventi cardiaci maggiori, quando i pazienti divengono sintomatici questa variante anatomica può associarsi a prognosi gravi, con infarto miocardico o morte improvvisa, particolarmente in età giovanile e in presenza di sfavorevoli caratteristiche anatomiche, quali maggior spessore e lunghezza, e di lesioni ateromasiche associate. Le strategie terapeutiche farmacologiche con farmaci betabloccanti rappresentano la prima scelta poiché riducono il grado di compressione determinato dal ponte e la frequenza cardiaca, prolungando il tempo di diastole e normalizzando la velocità di flusso a livello del segmento imbrigliato. Stenting del segmento coronarico intrappolato o sbrigliamento per miectomia chirurgica sono da riservare ai casi resistenti alla terapia medica, mentre il bypass aortocoronarico, che non risolve la problematica del ponte, è da preferire nei pazienti con associata malattia ateromasica prossimale. •

al fondo del cuore




Un nuovo ruolo per un vecchio farmaco? Metformina e prevenzione del rimodellamento dopo infarto miocardico
Nel modello animale la metformina, una biguanide comunemente usata in pazienti con diabete di tipo 2, è in grado di proteggere il cuore dal danno ischemico acuto, indipendentemente dalla presenza di diabete. Francesco Paneni et al. ci conducono negli affascinanti meccanismi sottesi all’effetto cardioprotettivo della metformina, attraverso la riattivazione di vie metaboliche che regolano il metabolismo miocardico e aumentano la capacità di sopravvivenza dei cardiomiociti, nonché la modulazione di modificazioni epigenetiche associate a riarrangiamento di geni chiave coinvolti nella risposta infiammatoria e nello stress ossidativo. Gli autori contestualizzano queste solide basi sperimentali alle conferme cliniche ottenute in analisi retrospettive, dove il pretrattamento con metformina in pazienti diabetici con STEMI si associava ad una riduzione dell’area infartuale e un miglioramento della funzione ventricolare sinistra. I deludenti risultati del trial randomizzato controllato GIPS-III, dove la metformina non ha avuto effetti positivi nel prevenire la disfunzione ventricolare anche in pazienti non diabetici con STEMI, vengono rivisitati criticamente alla luce dei bassi dosaggi adottati e della dilazione dei tempi di somministrazione rispetto alla procedura di riperfusione, concludendo per la necessità di ulteriori studi disegnati con maggiore attenzione ai meccanismi alla base della cardioprotezione dimostrata nel modello sperimentale. •

rassegna




Pervietà del dotto arterioso
Il dotto arterioso costituisce una struttura fisiologica in epoca fetale che, a polmone non ventilato, permette il passaggio di sangue dall’arteria polmonare verso l’aorta discendente. La pervietà del dotto arterioso isolata (PDA), con un’incidenza di 1 ogni 2000 nati vivi a termine, è di comune riscontro anche per il cardiologo non pediatra. Matteo Ciuffreda e Paolo Ferrero ci guidano con maestria attraverso i basilari concetti embriogenetici, fisiopatologici, clinici e terapeutici di questa anomalia, che rappresenta il 5-10% di tutte le cardiopatie congenite, con un profilo gestionale molto variabile in base all’associazione ad altre cardiopatie complesse, all’entità dello shunt e allo stadio nella storia naturale. L’impatto emodinamico della PDA in un cuore normale è determinato dall’entità dello shunt sinistro-destro che provoca iperafflusso polmonare, sovraccarico delle sezioni sinistre, scompenso cardiaco e, con tempistica variabile in rapporto all’entità dello shunt e alla reattività dell’albero polmonare, sviluppo di vasculopatia irreversibile, fino all’inversione dello shunt (sindrome di Eisenmenger). L’ecocardiografia transtoracica ha un ruolo cruciale nella valutazione della PDA per la definizione della geometria e delle dimensioni del dotto, la stima qualitativa dell’entità dello shunt e la valutazione dell’impatto sulle camere cardiache. La chiusura del dotto arterioso è unanimemente raccomandata in tutti i pazienti sintomatici e/o con shunt sistemico-polmonare in grado di determinare sovraccarico delle cavità sinistre, va preceduta da valutazioni funzionali di reversibilità delle resistenze polmonari in presenza di ipertensione polmonare, mentre nei pazienti con sindrome di Eisenmenger, dove il dotto arterioso assume una funzione di palliazione, può essere controindicata. Gli autori descrivono poi il ruolo cardine e lo sviluppo delle metodiche interventistiche nel trattamento di questa anomalia, indicando le due strategie alternative in dipendenza dalla dimensione del dotto: la chiusura con coil posizionati generalmente con approccio aortico transfemorale per i dotti di piccole dimensioni e la chiusura mediante posizionamento di protesi via doppio accesso venoso ed arterioso per quelli più grandi. •

studio osservazionale




Target di colesterolemia LDL nella cardiopatia ischemica cronica: sempre più bassi, ancora troppo lontani
La progressiva riduzione dei livelli di colesterolemia LDL raccomandati in prevenzione secondaria da linee guida e autorevoli documenti di consenso non si accompagna che in minima parte nel mondo reale alle “aspirazioni” in pazienti a rischio molto elevato come documentato dagli studi EUROASPIRE. L’ampia casistica dell’Osservatorio Cardiovascolare della Provincia di Trieste offre, attraverso un registro di patologia permanente che integra basi di dati clinici ed anagrafici, uno spaccato di popolazione molto interessante per valutare le prassi cliniche in rapporto alla realtà epidemiologica. Antonella Cherubini et al. descrivono i target lipidici rilevati alla prima visita ambulatoriale cardiologica in quasi 5000 pazienti con cardiopatia ischemica osservati a variabile distanza da un evento ischemico fra il 2009 e il 2012, quindi a cavallo delle raccomandazioni al più stringente valore di colesterolemia LDL <70 mg/dl, e l’utilizzo delle statine in prevenzione secondaria nel mondo reale. Partendo dalla considerazione che il valore di LDL era registrato solo nel 61% di questa popolazione, gli autori riportano che il target <100 mg/dl era raggiunto in solo circa la metà dei soggetti, mentre il valore più restrittivo <70 mg/dl si rilevava in meno di un quinto dei casi. Sesso maschile, eventi cardiovascolari pregressi, diabete, comorbilità e politerapia farmacologica, follow-up cardiologico e terapia con statine erano associati a valori di LDL <100 mg/dl. Per contro nei pazienti con colesterolemia LDL >100 mg/dl la terapia con statina veniva più spesso prescritta de novo, modificata nel dosaggio o sostituita, ma complessivamente questi aggiustamenti terapeutici venivano attuati in circa un quinto dei casi. Infine gli autori confermano il rilevante impatto sia del target lipidico che della terapia sugli esiti a 3 anni: pazienti con colesterolemia LDL <100 mg/dl in terapia con statina avevano la miglior sopravvivenza libera da ospedalizzazioni per causa cardiovascolare, mentre il sottogruppo dei pazienti con colesterolemia LDL <100 mg/dl che non assumeva terapia con statina mostrava la prognosi peggiore. Molto lavoro ancora da fare quindi per allinearsi alle aspirazioni, ma confortati dalla certezza che possiamo migliorare la prognosi dei nostri pazienti. •

dal particolare al generale




Aneurisma gigante della coronaria destra: bobine risolutive
Gli aneurismi delle arterie coronarie sono una patologia rara nella popolazione generale, con una incidenza variabile tra 0.15% e 4.9% delle coronarografie diagnostiche, e hanno talora dimensioni giganti. Il trattamento non è standardizzato e in letteratura sono descritti casi sottoposti a terapia medica conservativa o a riparazione o legatura chirurgica. Andrea Rognoni et al. descrivono un paziente di 78 anni con cardiomiopatia ischemica cronica e pregresso duplice bypass aortocoronarico ricoverato per dispnea progressivamente ingravescente che viene candidato a sostituzione chirurgica per insufficienza mitralica severa. La coronarografia di controllo pre-intervento mostrava pervietà del bypass con arteria mammaria, occlusione del graft venoso su ramo marginale ottuso e aneurisma gigante al tratto medio della coronaria destra, parzialmente trombizzato, con occlusione del tratto coronarico a valle. I rapporti anatomici dell’aneurisma con la parete toracica posteriore, analizzati con precisione con la risonanza magnetica, aumentavano notevolmente il rischio operatorio. Gli autori hanno risolto brillantemente il caso optando per una procedura di embolizzazione percutanea con coil, con completa obliterazione dell’aneurisma al controllo angiografico a distanza. Il paziente ha potuto affrontare la sostituzione valvolare mitralica senza complicanze. •




Valvuloplastica mitralica in paziente con cifoscoliosi congenita: quando la mano conta!
La commissurotomia mitralica transvenosa percutanea è il trattamento elettivo della stenosi mitralica sintomatica. Il miglioramento della tecnica e il raffinarsi dell’esperienza nei centri esecutori consentono ormai di fronteggiare situazioni ritenute in passato avverse per questa procedura, che sono divenute molto frequenti per l’evoluzione del quadro epidemiologico, con pazienti sempre più anziani affetti da multipatologia ed anatomia valvolare complessa. Alberto Cipriani et al. ci presentano il caso di un paziente di 68 anni affetto da broncopneumopatia cronica ostruttiva e cifoscoliosi congenita, ricoverato per edema polmonare acuto in stenosi valvolare mitralica severa ed insufficienza mitralica moderata, che ha affrontato con successo e senza complicanze la commissurotomia percutanea. Il primo ostacolo, la cifoscoliosi con rotazione delle camere cardiache e dai grossi vasi e perdita della colonna vertebrale come repere anatomico del setto interatriale, è stato affrontato con un sapiente mix di posizionamento dei cateteri nelle diverse camere e plurime proiezioni radioscopiche per individuare la fossa ovale. La complessa anatomia, con rigurgito mitralico e marcate calcificazioni sottovalvolari, ha reso difficile la stabilizzazione del pallone in sede transvalvolare, ma anche questo intoppo è stato superato impiegando il pacing transvenoso con stimolazione ad elevata frequenza, inedito nelle procedure mitraliche, durante il gonfiaggio. Alla fine la perizia tecnica ha regalato anche ad un paziente così complicato un beneficio emodinamico, la risoluzione pressoché immediata dei sintomi e una paradossale riduzione dell’insufficienza mitralica post-procedurale. È proprio il caso di dire che l’esperto fa la differenza! •